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LA STORIA DI UN IMPRENDITORE, LA STORIA DI UN UOMO: BERNARDO CAPROTTI - DOVEVA RACCOGLIERE I COTONIFICI DI FAMIGLIA, HA CREATO L’IMPERO ESSELUNGA - LA MADRE FRANCESE GLI TRASMISE L'AMORE PER L’ARTE E LA MUSICA - LO SCI E QUELL’ESPERIENZA AMERICANA CHE GLI CAMBIO’ LA VITA - IL FRATELLO FONDO’ LA “GS” A ROMA
Emanuela Scarpellini per La Lettura - Corriere della Sera
La prima volta che incontrai Bernardo Caprotti ero un po' preoccupata. È un uomo duro, mi avevano detto, non parla con nessuno, tratta male tutti. Era veramente così? In verità, mi aveva chiamato lui, dopo avere letto i miei studi sulla storia dei supermercati in Italia, ricostruita attraverso le carte dell' archivio Rockefeller a New York. A questo pensavo mentre aspettavo in una sala d' attesa.
IL TESTAMENTO DI BERNARDO CAPROTTI
La persona che entrò però era ben diversa. Elegante, premuroso, cordialissimo, Bernardo Caprotti era pieno di energia e aveva una grande voglia di raccontarsi. In fondo, la sua vicenda personale e imprenditoriale attraversava tutta la storia d' Italia, dal dopoguerra a oggi, e ripercorrerla adesso vuol dire riviverne le principali tappe.
Ricordo che mi colpì la sua parlata, inframmezzata con naturalezza da espressioni inglesi e francesi, non priva talvolta di qualche espressione colorita. Anche questo, come tutto il suo modo di fare, tradiva le origini. Origini che affondavano le radici nella borghesia manifatturiera che aveva fatto le fortune dell' alta Lombardia già a partire dall' Ottocento. Il cotonificio Caprotti fu creato a Ponte Albiate, in Brianza, verso il 1830, probabilmente sulle orme di un' attività mercantile precedente. Suo padre Giuseppe era l' ultimo erede della Manifattura Caprotti e la strada del piccolo Bernardo, nato il 7 ottobre 1925, sembrava già segnata: anche lui sarebbe diventato un cotoniere.
L' infanzia trascorse serena, insieme ai fratelli minori, Guido e Claudio, nella tenuta di famiglia ad Albiate. La madre, Marianne Maire, discendente da una ricca famiglia francese, insegnò ai figli ad amare l' arte e la musica; il padre trasmise loro la passione per la caccia e per i cani. Dalla famiglia ricevette un' educazione severa, basata su saldi principi, a cominciare dall' idea che a grandi privilegi si accompagnano grandi responsabilità e che la ricchezza non va mai ostentata.
Bernardo fu avviato agli studi classici e frequentò i prestigiosi licei milanesi Parini e Berchet. Ma i tempi si stavano oscurando e la guerra era alla porte. La famiglia internazionale e per metà francese dei Caprotti non aveva visto di buon occhio il fascismo; il padre, un «ragazzo del '99», aveva spinto i figli a guardare lontano e studiare l' inglese. I fratelli trascorsero gli ultimi anni della guerra ad Albiate, lontano dai bombardamenti. Poi tutto finì e la vita sembrò riprendere il suo corso normale.
Bernardo si iscrisse all' Università degli Studi di Milano e si laureò in Giurisprudenza. Ma non era pronto a entrare in fabbrica, secondo il padre. La «vecchia scuola» insegnava che, prima di ricoprire posti di comando, i figli degli imprenditori dovevano fare la gavetta e imparare il mestiere dal basso («sporcarsi le mani»). Che cosa c' era di meglio che fare esperienza negli Stati Uniti, Paese all' avanguardia della produzione cotoniera? Ecco allora che nel 1951, per un anno intero, il giovane fu mandato a perfezionarsi a Houston, in Texas, cuore dell' industria cotoniera americana, e poi più a nord, nel Maine e nel Massachusetts, come montatore meccanico.
Gli Usa furono una scoperta e l' inizio di un lungo amore. Lì capì che cosa significasse lavorare sul pezzo, avere una mentalità pragmatica e aperta all' innovazione. Al ritorno era davvero pronto a entrare in fabbrica, cosa che fece subito, nel gennaio 1952.
Quello che nessuno si sarebbe aspettato fu l' improvvisa morte del padre Giuseppe, appena sei mesi dopo. Bernardo si trovò solo al comando dell' impresa. Gli inizi non furono semplici, ma poi la sua vita cominciò a trovare un equilibrio tra il duro lavoro e gli svaghi: sci a St. Moritz e Zermatt, weekend nella Toscana dei milanesi, Forte dei Marmi, e poi ritrovi sociali a Milano. Fu qui che conobbe Giorgina Venosta, esponente di una casata illustre; la sposò ed ebbe due figli, Giuseppe nel 1960 e Violetta nel 1962. Ma qualcosa era nell' aria.
Quel qualcosa stava maturando negli Stati Uniti. In piena guerra fredda, Nelson Rockefeller, magnate del petrolio e della finanza, decise di promuovere attività all' estero per dimostrare la validità del modello americano di libera impresa. «È difficile essere un comunista con la pancia piena», amava ripetere. Un supermercato modello era l' ideale. La scelta cadde sull' Italia e un manager esperto, Richard Boogaart, fu inviato a gestire l' operazione. Al capitale della nuova azienda, la Supermarkets Italiani (in seguito Esselunga), parteciparono subito Bernardo e Guido Caprotti con il 18 per cento, i Crespi con il 16,5, Marco Brunelli con il 10,3 e soci minori. Con 300 mila dollari di investimento da parte degli americani, che mantenevano il 51 per cento delle quote, l' impresa partì a Milano nel 1957.
Bernardo Caprotti ricordava sempre con soddisfazione e persino commozione il 27 novembre 1957, il giorno che aprì i battenti il primo supermercato «americano». La ressa era straripante e si dovettero chiudere le porte a più riprese per l' affollamento, mentre una compatta schiera di 50 o 100 persone sostava in muta ammirazione davanti alle vetrine, osservando le cassiere al lavoro. Gli affari andavano bene, i clienti erano soddisfatti. In fondo, il successo del supermercato rappresentava il passaggio da un' Italia povera e di bassi consumi all' Italia del boom economico, che scopriva la macchina, gli elettrodomestici e nuovi consumi alimentari.
I veri problemi vennero semmai dalle lungaggini burocratiche e dal complicato sistema delle licenze («Questo è un Paese nel quale persino un americano può andare in confusione», annotò Boogaart). E soprattutto dalla categoria dei piccoli commercianti, che si sentirono minacciati. Spalleggiati dall' associazione di categoria e da alcuni settori della Democrazia cristiana, essi reagirono con una valanga di ricorsi e petizioni per bloccare i nuovi negozi. La battaglia per i supermercati sarebbe durata vari anni, riaccendendosi ad ogni nuova apertura a Milano e poi a Firenze.
Fu in questa situazione che avvenne un cambio di proprietà. A causa di pesanti perdite maturate in Asia, gli americani decisero di tagliare l' attività italiana. Bernardo Caprotti riuscì ad accaparrarsi le loro quote, garantendo ai fondatori un bel profitto di 2.750.000 dollari.
La sua mossa però lo mise in urto con gli altri soci, e in particolare con Brunelli e il fratello Guido, che si dedicarono a un' impresa concorrente, la Gs di Roma. Nel 1965 Bernardo assunse la guida dei supermercati come amministratore delegato, lasciando definitivamente il cotone. Lo trovava un business più dinamico e coinvolgente; a me confidò anche che aveva intuito che l' epoca d' oro della manifattura tessile era ormai alle spalle ed era alla ricerca di uno spazio nuovo.
Ma non furono rose e fiori. Terminata, o quasi, la battaglia per i supermercati, nel senso che ormai in Italia i nuovi negozi erano divenuti una realtà accettata, si aprì un nuovo duplice fronte, che racconta un altro pezzo della storia d' Italia. Con la fine degli anni Sessanta si aprì la stagione delle rivendicazioni salariali. Fu il periodo dei grandi scioperi, che investirono in pieno l' azienda di Caprotti. Fu allora che egli si guadagnò la sua fama di duro.
Esasperato dalle agitazioni e dai mancati rifornimenti che bloccavano interi reparti, Caprotti assunse un atteggiamento di aperto conflitto con sindacati e lavoratori, controbattendo colpo su colpo, e cercando di resistere alle richieste contrattuali. La tensione durò a lungo, fino agli anni Novanta.
Nel frattempo era cresciuto anche un fronte esterno di scontro, questa volta legato al ruolo della politica e delle autorità locali nella vita delle imprese. L' assegnazione delle licenze commerciali da parte dei Comuni aveva da sempre costituito un problema. Con la legge del 1971, che affidava ampi poteri in merito alle Regioni, la situazione si fece anche più complessa.
Fu allora che ebbe inizio la sua lotta senza quartiere alle Cooperative. Nel libro Falce e carrello, scritto nel 2007 per Marsilio, Bernardo Caprotti fa un dettagliato resoconto delle presunte ingiustizie subite a favore delle Coop in varie regioni. Al di là del libro, oggetto di controversie giudiziarie, la tesi è che la libera impresa in Italia subisca molte costrizioni, a volte di natura politica, a volte per via di favoritismi verso soggetti locali, e a volte, verrebbe da aggiungere, sotto la pressione delle clientele. È una storia che purtroppo non riguarda solo la distribuzione commerciale ed è alla base di molte distorsioni e inefficienze.
GIULIANA ALBERA CON IL MARITO BERNARDO CAPROTTI E LA FIGLIA MARINA SYLVIA
Lo scontro tra Esselunga e le Coop, in fondo, è solo un altro pezzo della storia d' Italia. Qui forse nasce l' atteggiamento di Caprotti verso la politica: sostenitore della Lega prima e di Forza Italia poi, non si riconobbe mai davvero in un partito, ritenendo la classe dirigente semplicemente non all' altezza del governo nazionale. Con poche eccezioni legate alle singole persone, magari anche di altri partiti, come Pier Luigi Bersani, apprezzato autore delle prime liberalizzazioni del 1998.
Intanto la vita privata aveva avuto una nuova svolta. Allontanatosi dalla prima moglie, che si risposò in seguito con Aldo Bassetti, Caprotti convolò a seconde nozze con Giuliana Albera, da cui ebbe la terza figlia, Marina Sylvia. L' intensità del lavoro lo impegnava però a fondo. Rinunciò a molti svaghi e anche allo sci, perché nel supermercato di sabato si lavora.
Anzi, per il sabato sviluppò un nuovo «passatempo»: andare nei suoi supermercati, sfruttando il fatto che non lo conosceva nessuno, magari verso l' ora di chiusura, e fare il cliente difficile: «Mezzo etto di prosciutto, e poi quel prodotto, ma è fresco? No magari mi dia quell' altro…». Voleva assicurarsi che i commessi fossero sempre gentili e disponibili e che tutto funzionasse come un orologio.
Amava moltissimo i suoi supermercati, per i quali aveva chiamato architetti famosi come Gio Ponti, Vico Magistretti, Ignazio Gardella, e aveva adottato da pioniere novità come il magazzino automatizzato e la lettura ottica dei prezzi. Mangiava sempre nella mensa aziendale. E volle farsi immortale nel filmato commissionato a Giuseppe Tornatore, nel 2011, come un semplice panettiere al lavoro in negozio.
Della sua produzione alimentare era particolarmente orgoglioso, lui che mangiava poco e amava la cucina milanese. Tanto da incappare in un piccolo incidente, quando una volta disse a un giornalista che aveva insegnato lui a Gualtiero Marchesi, suo vecchio amico, a fare la vera cotoletta, alta e poco impanata. Marchesi, con garbo ma fermezza, gli rispose gentilmente che no, la ricetta originale l' aveva ereditata dal padre. Almeno su questo, le polemiche finirono qui.
Intanto si dedicava anche alla filantropia ma, fedele ai vecchi insegnamenti, seguiva la norma per cui la beneficienza si fa ma non si dice. Con uguale slancio si impegnò in campagne per rafforzare l' efficienza del Paese, come quella per il potenziamento dell' aeroporto di Ghedi-Montichiari, che a suo dire avrebbe servito meglio il Nord produttivo della decentrata Malpensa.
BERNARDO CAPROTTI CON LAUREA HONORIS CAUSA
Ma nuove sfide erano all' orizzonte. Dopo la crescita dei consumi, dopo gli scontri sindacali e quelli con le cooperative concorrenti, era arrivata la globalizzazione. E con essa, le mire di grandi imprese estere sul ricco mercato italiano. Caprotti, da sempre sostenitore dell' italianità, resistette, ma altri gruppi passarono in mani straniere. Fu anche per questo che cominciò a pensare alla successione e a un diverso assetto societario. Il figlio Giuseppe, laureato in Storia alla Sorbona, in Esselunga dal 1986, fu chiamato a ricoprire incarichi sempre più elevati, che culminarono nella nomina ad amministratore delegato nel 2002; la figlia Violetta si impegnò all' ufficio acquisti.
ESSELUNGA CHIUSE PER LUTTO DOPO LA MORTE DI CAPROTTI
Sembrò giunto il momento del definitivo cambio di guardia. Ma durò poco. Giuseppe aveva una visione sua dell' azienda, improntata sul marketing, il management, l' e-commerce; tutto il contrario della politica incentrata sul controllo di prezzi e prodotti del padre (l' Argentil, scrisse in seguito Bernardo scandalizzato, costava 5 euro contro i 4 della concorrenza…).
I risultati economici furono negativi e così con uno scatto di orgoglio, due anni dopo, Bernardo riprese in mano la situazione: estromise il figlio, licenziò dirigenti, annullò piani strategici. Esselunga tornava all' antico. Come in molte altre aziende italiane, il fondatore restava al comando fino all' ultimo.
Subito cominciarono a circolare voci di vendita. Si fece il nome di Wal-Mart, poi di gruppi di investimento, persino la Coop si dichiarò interessata. Ma Caprotti aveva altri piani. Nel 2011 si riprese le azioni aziendali, già intestate fiduciariamente ai figli. Ne seguì un doloroso contrasto familiare: Giuseppe e Violetta ricorsero prima a un arbitrato, perso; poi all' azione legale, le cui prime fasi furono favorevoli al padre. Mentre si susseguivano nuove voci di cessione, la malattia che lo aveva colpito da alcuni anni peggiorò di colpo.
Con il tumore la lotta era impari. Una settimana prima del suo 91° compleanno, il 30 settembre 2016, Bernardo Caprotti si è spento. Nel testamento ha lasciato il 70 per cento dell' azienda alla moglie Giuliana e alla figlia Marina Sylvia, e una quota del 15 ciascuno ai figli Giuseppe e Violetta, oltre che lasciti ai nipoti e una donazione molto ricca (75 milioni di euro) alla segretaria di sempre, Germana Chiodi. Ma la sua reale eredità è la creazione di Esselunga, il primo vero supermercato d' Italia.
Con lui è scomparso forse l' ultimo imprenditore di una vecchia scuola, a volte troppo rigido nelle sue posizioni, caparbio, ma capace di slanci generosi e con lo sguardo rivolto al futuro. Una scuola di imprenditori che ha fatto grande l' Italia.