TRONCHETTI: “UNA SENTENZA PARADOSSALE. DIFENDENDO TELECOM L’AVREI DANNEGGIATA, E DEVO PURE RISARCIRE IL MANDANTE”

Raffaella Polato per "Il Corriere della Sera"

Un'arma ben oliata, per lui: autocontrollo. È il tratto che più spesso affiora nel tono di Marco Tronchetti Provera a freddo, quando ormai è passata qualche ora dalla sentenza di condanna pronunciata in primo grado dal Tribunale di Milano.

Un anno e otto mesi di carcere. Novecentomila euro di risarcimento a Telecom Italia. Altri quattrocentomila a Carla Cico, ex amministratore delegato di Telecom Brasil. Pessima giornata per lei, dottor Tronchetti.
«Se non avessi il carattere che ho, in effetti, mi sentirei depresso».

Invece?
«Devo risarcire da un lato chi ho difeso, ossia Telecom Italia, dall'altro il mandante dello spionaggio sull'azienda, su di me, persino sulla mia famiglia. Quel mandante - l'amministratore delegato di Telecom in Brasile nel 2004 - io lo denunciai. Ricevendo tra l'altro, dopo l'arresto da parte della Procura brasiliana dei soggetti ritenuti responsabili, le scuse pubbliche dell'agenzia che aveva ricevuto l'incarico. Interessante che tutto questo sia stato cancellato, non trova?».

Ci torniamo, ma intanto: se l'obiettivo era Telecom e non lei, perché far spiare anche sua moglie, per esempio?
«Perché si voleva danneggiare l'immagine mia e della mia famiglia. Per indebolirci. E il fine era chiarissimo: buttar fuori Telecom Italia dalla sua controllata brasiliana».

In quest'intricatissima vicenda, una delle tante con cui si è trovato a che fare durante e dopo la sua era in Telecom, a un certo punto compaiono un dischetto e un hacker. È da lì che si parte per arrivare alla condanna italiana. Com'è andata, con il pirataggio informatico?
«Non lo so, dovete chiederlo a Giuliano Tavaroli».

Ricordiamolo: l'ex capo della sicurezza di Telecom. È lui l'uomo cui si riferisce esplicitamente nel comunicato stampa di ieri, quando commenta: «La sentenza in primo grado si fonda esclusivamente sulle dichiarazioni di un teste che in questa lunga storia ha dichiarato tutto e il suo contrario, tanto da essere definito "ambiguo" dallo stesso pubblico ministero. Non sono state portate prove, perché non ne esistono, che confermino la ricostruzione di Tavaroli».
«È così. Un giorno due avvocati, Francesco Mucciarelli e Francesco Chiappetta, vengono nel mio ufficio insieme a Tavaroli e mi riferiscono: "Siamo spiati da Kroll su mandato di Telecom Brasil e del suo amministratore delegato". Denunciamo, dico. E lo facciamo subito.

Il dischetto viene mandato in Brasile, le indagini partono, scattano alcuni arresti. Gli azionisti della Kroll si scusano ufficialmente con noi ponendo fine a tutte le azioni contro di me, la mia famiglia, Telecom Italia. Era il 2004. Nove anni dopo, nel nostro Paese, in primo grado vengo invece condannato. Paradossale e illogico. O no?».

La questione, e il confine probabilmente sottile con il reato di ricettazione che l'ha portata sul banco degli imputati, è però la provenienza di quel dischetto. Non le è mai venuto il dubbio che non fosse lecita?
«Ma scusi: faccio l'imprenditore da quarant'anni, nel mio ufficio di presidente Telecom vengono un avvocato penalista, il capo degli affari legali del gruppo, il responsabile della sicurezza, e io penso che mi propongano una cosa fuori dalla legge?».

A proposito: questa sentenza riapre la vicenda dei dossier illegali Telecom?
«Una volta per tutte: la vicenda dei dossier illegali è chiusa. Dopo cinque anni di indagini e due di processo i responsabili sono stati prima individuati e poi condannati. Io ho contribuito all'accertamento dei fatti e nel processo non sono mai entrato».

Rimane comunque aperta un'altra inchiesta legata al Brasile.
«Da quanto mi ha riferito il mio avvocato, il professor Roberto Rampioni, il pubblico ministero titolare delle indagini sembra intenzionato a chiedere l'archiviazione».

Intanto però il primo grado del suo unico processo finisce con una condanna.
«Lo ripeto: paradossale e illogica. Difendendo Telecom l'avrei danneggiata. Dovrei risarcire persino il mandante di chi ci ha spiato e poi ci ha chiesto scusa».

Sarebbe il meno, in fondo. Le hanno dato anche venti mesi, pur se interamente coperti da indulto.
«Avevano chiesto due anni. Mi hanno fatto lo sconto sul minimo della pena».

Naturalmente ricorrerà.
«Naturalmente. Tutta la vita, ricorrerò. Ma ho fiducia nella giustizia».

Si dice sempre. Lei, l'ha detto sempre.
«Questa volta aggiungo: spero di essere almeno un po' ricambiato».

Com'è che le «code» Telecom, per lei, sembrano non chiudersi mai del tutto?
«Vuole le ragioni vere? Prima o poi emergeranno».

 

 

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