
E’ FINITA LA GLOBALIZZAZIONE DEI PORACCI: TRUMP LA MANDA IN CANTINA - HA IN MENTE UN DAZIO DEL 35% SULLE AUTO AMERICANE PRODOTTE IN MESSICO - INTANTO GENERAL MOTORS LICENZIA 2 MILA PERSONE NEGLI USA, MA INVESTE 5 MILIARDI OLTRE TIJUANA PER RADDOPPIARE PRODUZIONE VETTURE A BASSO COSTO
Pietro Saccò per Avvenire
Con straordinario tempismo il giorno dopo la vittoria di Donald Trump la General Motors ha annunciato che all' inizio del prossimo anno licenzierà 2mila persone nelle fabbriche di Lordstown (Ohio) e Lansing (Michigan) perché le Chevrolet Cruze e le Cadillac Ats e Cts costruite in questi stabilimenti vendono molto meno di prima.
Ecco servito chi aveva bisogno di ulteriori elementi per capire come mai in una roccaforte democratica come il Michigan stavolta abbiano vinto i repubblicani e perché abbiano scelto Trump anche in Ohio, Stato tradizionalmente in bilico dove sia nel 2008 che nel 2012 aveva prevalso Barack Obama. Gli operai di Lordstown e Lansing, che negli anni passati hanno visto rinascere la loro azienda con l' aiuto dello Stato dopo il drammatico fallimento del 2009, non si devono essere scordati le promesse di Trump, che durante la sua campagna elettorale ha accusato le Big Three di Detroit di avere approfittato della globalizzazione per spostare la produzione e i posti di lavoro dagli Stati Uniti al Messico.
Difficile dargli torto. Nel dicembre di due anni fa proprio Gm ha annunciato un grande piano di investimenti in Messico: 5 miliardi di dollari in quattro anni per raddoppiare la capacità delle sue fabbriche nel paese.Chissà se sarà un buon affare, ora che Trump si prepara a traslocare alla Casa Bianca.
Il presidente eletto ha intenzioni molto dettagliate su questo punto: «Quando una di quelle auto torna nel nostro paese attraverso il confine - ha spiegato Trump attaccando l' attività messicana di Ford - adesso può farlo gratis. Noi le applicheremo una tassa del 35%. E sapete che cosa succederà: quelle auto non lasceranno più il paese…».
La tassa promessa sulle importazioni di automobili è l' esempio più evidente delle intenzioni bellicose di Trump riguardo gli accordi di libero scambio tra gli Stati Uniti e il resto del mondo. È una svolta radicale rispetto agli ultimi otto anni. Obama aveva sognato di lasciare in eredità al suo successore un Paese che fosse il centro di un' area di libero scambio che andasse dall' Australia al Portogallo passando dal Giappone. Il presidente uscente c' è andato molto vicino, ma non c' è riuscito.
Il 4 febbraio a Auckland, in Nuova Zelanda, Obama ha firmato il Partenariato Trans-Pacifico ( Tpp), accordo commerciale tra dodici paesi (compresi Canada, Australia, Messico, Cile,Vietnam e Giappone) che assieme fanno circa il 40% del Pil globale. Un' intesa storica che nei piani doveva essere accompagnata da quella sul Ttip, il trattato di libero scambio tra Stati Uniti e l' Unione Europea. Ma Bruxelles si è rivelato un interlocutore sicuramente troppo diviso e probabilmente anche troppo forte dal punto di vista industriale per rendere praticabile la trattativa. Così il Ttip è morto di morte naturale, per quanto alcuni, come il ministro italiano Carlo Calenda, continuino a sperare in una sua rinascita.
Anche il Tpp però, che per diventare operativo ha bisogno di essere ratificato dai parlamenti dei dodici paesi coinvolti, adesso si trova in un pessimo stato di salute. Durante la campagna elettorale anche Hillary Clinton era stata molto critica sull' accordo trans-pacifico, Trump però è stato drastico: quell' intesa non può andare avanti. Il primo ministro giapponese Shinzo Abe andrà a New York per tentare di convincere il futuro inquilino della Casa Bianca della bontà dell' accordo firmato a febbraio, ma sembra potere nutrire poche speranze.
La retromarcia che Trump può imporre alla globalizzazione non si esaurisce qui. Il presidente eletto ha anche intenzione di mettere mano al Nafta, l' accordo nordamericano per il libero scambio tra Stati Uniti, Canada e Messico in vigore dal 1994. È l' intesa che permette ai costruttori di auto americani di produrre in Messico ed esportare negli Usa a costo zero. A Città del Messico ovviamente sono molto preoccupati.
Ildefonso Guajardo, ministero dell' Economia messicano, intervistato dalla Reuters non ha nascosto di essere un po' in difficoltà: «Siamo disposti a parlare per spiegare l' importanza strategica del Nafta per la regione. Non stiamo parlando di… rinegoziarlo, stiamo solo parlando di dialogo». «La competizione globale non è per paesi, ma per regioni» ha tentato di ricordare il ministro messicano, riproponendo un tipico slogan proglobal. Ma sono idee sempre meno popolari in Occidente, dove larghe fette della popolazione sentono - e spesso non a torto - che l' accelerazione del processo di apertura dei mercati internazionali ha tolto loro posti di lavoro e le ha rese, in definitiva, più povere.
Trump, che ha fatto della difesa di questi 'perdenti della globalizzazione' una delle basi della sua campagna vittoriosa, se confermerà gli impegni presi potrebbe dare il colpo di grazia a un mercato globale già molto malmesso. Nel 2016, ha segnalato a giugno l' Organizzazione mondiale per il commercio ( Wto), per la prima volta da quindici anni la crescita del volume di merci scambiate nel mondo dovrebbe essere inferiore all' espansione del Prodotto interno lordo globale: +0,8 contro +1%.
Il tema del ritorno del "protezionismo" è stato al centro degli ultimi incontri del G20. I leader mondiali in questi vertici si sono sempre detti d' accordo sulla necessità di non alzare nuove barriere commerciali, ma poi tornati in patria non se ne sono poi preoccupati molto. Come ha notato lo stesso Wto questo giovedì, nell' ultimo report sui paesi del G20, quegli stessi capi di Stato tra maggio e ottobre di quest' anno hanno implementato ottantacinque nuove misure restrittive del commercio. Se Trump rappresenta l' alfiere di una nuova epoca di chiusura dei mercati può quindi contare su una nutrita compagnia di governanti stranieri. Forse meno espliciti ma altrettanto preoccupati del benessere che può fuoriuscire quando si apre la propria economia al mondo.