
WOLFSBURG, CALABRIA - VIAGGIO NELLA CITTA' FABBRICA DELLA VOLKSWAGEN VOLUTA DA HITLER, DOVE LE FARMACIE SI CHIAMANO PORSCHE E LE BANCHE AUDI, E GLI OPERAI (TUTTI ITALIANI) GIOCANO ALLE SLOT MACHINE E LASCIANO IL ''CAFFE' SOSPESO''
Michele Masneri per "Quattroruote"
A Wolfsburg si arriva saltando. Guidando dall’aeroporto, il più vicino, quello di Hannover, una volta entrati nella città-azienda Volkswagen in Bassa Sassonia, la macchina comincia a saltare come su uno speed-bump o viadotto continuo. Non sono innovative tecnologie anti-velocità, ma antichi lastroni di cemento, «sono ancora le strade che faceva Lui, le facevano così per risparmiare tempo e soldi», m’informano.
Lui è Adolf Hitler, e questo Borgo del Lupo, nonostante la storiografia abbia retrodatato le origini a un antico villaggio dedicato al canide cacciatore, conserva un po’ di inquietanti ricordi di questa città creata artificialmente per fare la macchina del popolo, nel 1938. Wolfsburg portò poi il Maggiolino per le masse e – grazie agli Alleati che preferirono una Germania solida invece che nuovamente disperata - alla ripresa e al boom del Dopoguerra. Seppellito il Lupo, il Borgo ha portato l’auto e il suo popolo in trionfo, fino all’inspiegabile e forse psicanalitico Diesel Gate del mese scorso.
A Wolfsburg, lontano da tutto, duecento chilometri da Berlino, in mezzo al nulla, la pioggia gelida continua a cadere ma non impedisce la vista del monumento-fabbrica di mattoni rossi con quattro ciminiere che fumano in continuazione, ed è naturalmente la fabbrica Vw con lo stemma bianco su fondo azzurro, invadente da ogni angolo della città come la centrale nucleare dei Simpson o quella elettrica di Battersea sulla copertina di Animals dei Pink Floyd.
Il primo giorno, sfidando la pioggerella, attraverso la strada dal mio albergo (graziose stampe di pullmini Vw sono appese nella hall) e vado alla sede dell’Ig Metall, il famoso sindacato dei metalmeccanici che tutti invidiano perché è potente ma anche ragionevole e partecipa alla altrettanto celebre Mitbestimmung, cioè la co-gestione, parola che qui pronunciano tutti in ogni conversazione, anche al bar, come se fosse (o fosse stata) una specie di mantra o amuleto in grado di risolvere tutte le crisi.
Nell’atrio del palazzo Img campeggia un maggiolino verde prima serie. Il quartier generale del sindacato in questi giorni è affollato, con noi sono in attesa una troupe di France 2 e della radio della Bbc. Segretarie efficienti organizzano una conferenzina stampa in una saletta nel palazzo tutto vetro. Entra questo signor Hartwig Erb, che è il capo dell’Igm qui in città, ma prima le segretarie hanno già distribuito dei mug rossi col logo del sindacato con caffè e biscotti.
Erb, un signore distinto dallo sguardo triste, risponde sempre le stesse cose che avrà ripetuto duecento volte negli ultimi giorni: che loro si sentono molto arrabbiati, che però sono «preoccupati ma anche fiduciosi». Che hanno distribuito qualche settimana fa a una manifestazione 10.000 magliette con la scritta «Una squadra, una famiglia!». Ogni tanto la sua voce sale un po’, come se volesse dire qualcosa di più: «i clienti fanno bene a sentirsi truffati!» dice. «E pure i lavoratori, che ogni giorno vanno al lavoro».
Del resto «le famiglie che abitano qui a Wolfsburg sono qui per un solo motivo, lavorare per Volkswagen». Poi parla di trasparenza, torna su toni più protocollari, poi si rianima quando i francesi gli chiedono cosa cambierà per Wolfsburg visti i soldi che Vw «regala» alla città. «Vw non regala» (ma forse c’è stato solo un malinteso linguistico della giornalista francese, ndr), «Vw produce reddito e le tasse vanno alla città, come la Peugeot in qualche città francese» dice stizzito.
Anche se naturalmente il paragone non regge: Vw – secondo i media – versa ogni anno 430 milioni di euro di tasse al comune; comune che ha congelato le previsioni di bilancio fino a dicembre, in seguito al Diesel Gate, tanto forte è il legame con la fabbrica.
Ma se questo modello della Mitbestimmung funziona così bene, gli si chiede - come mai voi del sindacato non sapevate niente? Erb mi guarda allora stupito, ma non con odio, piuttosto con costernazione. «Non parlerei di colpe» risponde, «noi non siamo un organo giudicante, posso solo dire che alla fine verrà fuori che la responsabilità sarà di pochi», dice con lo sguardo da animale braccato. Poi si innervosisce e mette in chiaro: «noi non guidiamo l’azienda, va bene?». Va bene. Però che delusione. A noi poveri Paesi Pigs del Sud Europa straccione questa Mitbestimmung piaceva tanto.
Usciamo. Una grande mostra, «Wolfsburg Unlimited», che dovrebbe aprire nei prossimi mesi, mostrando «le tracce della città di Wolfsburg dal 10.000 avanti Cristo a oggi, passando per il Re Heinrich Nordhoff», dove questo re sarebbe poi l’ingegnere del Maggiolino. Altri musei: uscendo dalla sede del sindacato, si arriva su uno stradone (Heinrich-Nordoff Strasse), e ci si imbatte nel Phaeno, un mammozzone brutalista della architetta anglo irachena Zaha Hadid, quella che ha fatto il Maxxi di Roma.
Dedicato alla fisica e alla meccanica, fa anche da ponte tra la città informale dell’auto e la AutoStadt, la «città dell’auto» letterale, il parco a tema un po’ delirante voluto da Vw nel 2000; qui, nel corpo del Phaeno, scolaresche con maestri teutonici si aggirano tra bilance, sfere, catapulte, compassi, robot; la gioventù teutonica dovrebbe apprendere i segreti della fisica e soprattutto della meccanica: ma in bella mostra, protetta da un cordolo come se fosse un Goya, ecco invece una Golf prima serie, rossa, lucida, che per scherzo del destino porta ben chiara la sua lettera scarlatta sul radiatore: «diesel».
Dal museo – da cui si gode una superba vista sullo stabilimento Volkswagen da un'altra angolatura ancora – tapis roulant portano alla Autostadt, ai suoi laghi in cui nuotano carpe enormi, come pesci primordiali, alle alte torri di vetro in cui stanno incistate le auto che clienti feticisti vogliono acquistare non in un qualunque concessionario, ma proprio qui, nel centro dell’impero.
Le auto vengono poi portate giù, in un salone che si chiama Kundenauslieferungs-center, centro ritiro auto, e mentre sono lì io ci sono diverse famigliole in attesa della loro Golf. Nell’autosalone turrito ci sono anche macchine in esposizione, col prezzo, come in un concessionario normale sulla Balduina; appena appoggio una mano su una Phaeton blu, però, subito arriva un commesso con un piumino a spolverare la mia impronta, e mi dice «buongiorno», in italiano.
Del resto, qui gli italiani sono la maggioranza, hanno cominciato ad arrivare negli anni Sessanta, siamo alla terza generazione. Riattraversato il ponte, siamo da Bruno, epicentro operaio vicino ai cancelli della fabbrica. Bruno, il proprietario, non c’è, mi dice la nipote Giovanna, che è di villa San Giovanni, in Calabria, e versa caffè e birre a operai Vw che smettono il turno delle 13. Fuma lei, fumano loro.
Tutti fumano in questo bar di Wolfsburg, con un odore rancido di sigarette, fumano e giocano alle slot machine (in ogni bar e ristorante di Wolfsburg ci sono slot machine, ci sono anche locali solo di slot machine, hanno nomi come «Paradise», con insegne di palme al neon; fa un po’ impressione vedere questi omoni calabresi e siciliani e veneti che inseriscono monetine nelle macchine con lo sguardo fisso. Giovanna li conosce uno per uno, non serve che ordinino, quando entrano lei in automatico spilla una birra o versa un caffè).
C’è Michele, di Catania, è 37 anni che è a Wolfsburg, lavora alla catena di montaggio della nuova Tiguan, e dice che lui è tranquillo perché «tanto stamattina alla radio il premio natalizio han detto che ce lo danno», e sono dei bei soldi, almeno 2.000 euro. «Qui un operaio può guadagnare da 1.500 fino anche a 4.000 euro al mese, dipende dai turni che fa», dice Michele, che non è preoccupato.
Di là dalla cassa, Giovanna, fumando un’altra Gauloise, ribadisce nell’italiano tenero degli emigrati che «si fanno tante parole però alla fine quante volte siete andati in Kurzarbeit (cioè la cassa integrazione)? Solo una volta in trent’anni». Entra un’amica di Giovanna, che è pugliese, e poi se ne va, e solo allora Giovanna dice: «ecco, lei sì che è preoccupata, suo marito ha un posto a tempo determinato, lei sì che deve stare con i pensieri in testa, hanno tre figli». Intanto tra il fumo di sigarette uno schermo acceso su Sky mostra la squadra di calcio del Vfl Wolfsburg, di proprietà naturalmente Volkswagen, e la società ha subito annunciato che taglierà 40 milioni di sponsorizzazione a causa del dieselgate.
Reazioni: scarse. Per ora prevale la lealtà, o la rimozione. «Una signora che conosco, che lavora alla VW, ha ridato indietro la macchina» dice Giovanna, «così ha avuto la macchina nuova, e non contenta ora le fa anche causa» dice scuotendo la testa. A quel punto un altro signore che fumava accanto a me al bancone, e finora rimasto in silenzio, dice: «A mazzate in testa la prenderei».
Con accento inconfondibile calabrese. «Che cosa facciamo a Wolfsburg? Niente. Lavoriamo e basta. Ma va bene così» aggiunge Giovanna. Poi arriva lo zio Bruno, ma preferisce non parlare coi giornalisti, ci dice di andare piuttosto da Azzurri, che è l’altro suo locale, lì ci sono tanti pensionati che parlano volentieri.
Andiamo allora da Azzurri, passando davanti a un locale di slot machine e a un tragico negozio dell’usato, che pare un’installazione di Francesco Vezzoli o un monumento al decoro microborghese o aristoproletario: stampe di alluminio, con cornicetta anodizzata, che rappresentano l’antica e forse immaginaria Wolfsburg (sette euro); macchine per il caffè con filtro blu, Braun, tre euro, e la sensazione di vite minime sotto quella pioggia, all’ombra della fabbrica, è quasi struggente.
Che cosa succederà? Ecco un cantiere, con una gru che sta costruendo un enorme padiglione di laboratori di scienze automobilistiche, tutto moderno, di vetro e cemento, finanziato dallo Stato e dalla fabbrica (la Mitbestimmung). Andranno avanti? Arriviamo a questa Porschestrasse pedonale che è la via dello struscio, dove tutto è Volkswagen o comunque roba di famiglia: c’è la cassa di risparmio Audi Bkk, c’è la farmacia Porsche, in un’altra via c’è il bancomat Volkswagen.
Sotto la pioggia, negozi tristi che ricordano l’italianità: un «Tiziano caffè e gelato», un Bar «Paparazzi», un negozio per taglie forti «La donna», fino alla 60. Al bar Azzurri non si fuma, ma ci sono molti pensionati che giocano a scala 40. La tv è sintonizzata su Radio Italia, Marco Mengoni canta: «credo negli esseri umani, che hanno coraggio/coraggio di essere umani».
Al banco Luigi, una trentina d’anni, sardo, è uno dei pochi giovani, tutto contento perché è appena stato assunto, anche lui, alla catena della nuova Tiguan. «Io sto al supermarket, quello dove vengono a prendere tutti i pezzi per montarli. Ti trattano bene, io prima ho fatto il muratore, ora guadagno 19 euro l’ora».
Ha una visione geopolitica del dieselgate. «E’ tutta colpa degli americani. Si facessero gli affari loro, mi dici perché si devono occupare di queste cose? Come nella politica, devono sempre immischiarsi nelle cose dell’Europa». Franco, il gestore del bar, è più realista. Lui ha lavorato sei anni alla Volkswagen ma poi ha smesso, «non ce la facevo, non fa per me».
Anche se «costruivamo la Golf, seconda serie, una macchina bellissima». Nei bar degli italiani di Wolfsburg c’è la pratica del caffè sospeso. «Ne abbiamo diciannove pagati», mi diceva Giovanna. «Ma poi non li prende mai nessuno, perché non ne hanno bisogno». Il rischio è che la vita grama di Wolfsburg, tra pioggia, piccola agiatezza e slot machine, possa diventare improvvisamente simile a un miraggio.