A 20 ANNI DALLA MORTE, SORDI È PIÙ VIVO CHE MAI – ALBERTO ANILE E GLI INCREDIBILI SCHERZI DI ALBERTONE, COME QUANDO INVERTÌ LE DUE CRAVATTE CHE SERVIVANO A VITTORIO DE SICA PER PRESENTARSI DALLA FAMIGLIA UFFICIALE E DA QUELLA UFFICIOSA: “NEL COFANO DE SICA AVEVA DUE VALIGIE CON DUE CAMBI DI VESTITI. CI SPIEGÒ: ‘IO PRANZO DUE VOLTE, QUANDO VADO DA GIUDITTA E QUANDO VADO DA MARIA. E DEVO INDOSSARE LE LORO CRAVATTE, GUAI SE MI SBAGLIO’. UNA VOLTA SORDÌ APRÌ IL COFANO E LE INVERTÌ” – LO SCHERZO STAVA PER FINIRE MALISSIMO E…
da “Alberto Sordi” di Alberto Anile, CSC-Edizioni Sabinae, Roma, 2020
LIBRO ALBERTO SORDI ALBERTO ANILE
Gli scherzi più belli, entrati nella leggenda, risalgono a quando Sordi era poco più che ventenne, all’epoca in cui frequentava Andreina Pagnani, e con lei il mondo serissimo del teatro di prosa. A Renato Simoni, che pare fosse particolarmente credulone, giurò di aver visto Ermete Zacconi diventato piccolissimo su una sedia, perché affetto da una malattia rara e perniciosa, «il morbo di Trottinson». Pure Gino Cervi, Rina Morelli, Dina Galli, Paolo Stoppa dovettero subire la loro dose di burle.
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Sordi all’epoca era una vera mina vagante, incapace di frenare la tentazione di avventarsi sulla vittima designata, anche quando il luogo in cui si trovava sconsigliava azzardi. «Una sera, con Andreina, andammo a casa della scrittrice Alba de Céspedes, per una festa in costume. Appena entro ti vedo un uomo massiccio, autorevole, vestito con un bel costume dell’Ottocento. Si teneva in mano un paio di occhiali dalle lenti spesse, e si massaggiava due occhi gonfi, rossi, doloranti: infiammatissimi. Feci un balzo.
Appena Andreina si allontanò con Alba e rimasi solo gli andai alle spalle e gli cacciai da dietro due dita a uncino negli occhi, tirando e dicendo intanto: “Chi sono? Chi sono?”». «Era un momento in cui io non potevo frenare certi istinti, non potevo frenare questi scherzi, anche a volte violenti, io lo riconosco. Era come un diavoletto che c’avevo addosso: appena vedevo, così, un motivo che si prestava allo scherzo, zang!, saltavo […]. Come un grugnito soffocato da quest’uomo cominciò a venir fuori: “Oh Dio… Oh Dio… Oh mamma mia, Oh Dio...”.
alberto sordi andreina pagnani
“Chi sono?”, io continuavo, “chi sono?”. A un certo momento partì con una voce roboante: “OH PORCACCIO…!”, non vi dico il resto. Fece voltare tutti gli astanti, guardò, io lasciai subito, mollai, mi misi in mezzo agli altri così a guardare, anch’io interessato... Allora questo, tutto febbricitante, tremante dall’emozione, a un certo momento cercava di spiegare. Gli domandarono “Ma che è successo?”. “Non so! Non so chi è! Mi aveva messo due dita qui!”, e indicava questi occhi doloranti, “e stringeva, stringeva…”».
Ovviamente la Pagnani, se c’era Sordi per casa, aveva le sue remore a invitare ospiti di un certo riguardo. Grazia Livi racconta di un pranzo con un colonnello di cavalleria, il conte Bettaro, che ammorbava gli ospiti rievocando eroiche azioni di guerra ed elargendo consigli non richiesti sull’addestramento equino. «Sordi da un pezzo aveva fatto gli occhi lucidi e ironici come uno che sta per esplodere.
La Pagnani era sui carboni ardenti. Infatti di colpo si alzò dalla sedia e portandosi la mano alla fronte in un saluto scattante gridò: “Colonnello che n’è degli alpini!”». «“Che significa” balbettò lui. “Perché non parla dei nostri meravigliosi alpini?”. E nella costernazione generale», è Sordi a raccontare, «cominciai a cantare a piena voce, sull’attenti, le canzoni della montagna. Andreina, sconvolta, si alzò e andò via. Visconti non riusciva a fermare il convulso di risa. A poco a poco tutti cominciarono ad alzarsi e a filarsela. Una serata stupenda».
Uno dei più bersagliati dell’epoca fu Cervi, che Sordi provocava irrompendo sulla scena in pieno spettacolo. L’aneddoto più conosciuto è ambientato al teatro Eliseo, dove Cervi e la Pagnani recitavano in Gli ultimi cinque minuti di Aldo De Benedetti. «La scena rappresentava una casa vuota, appena costruita, che tutti e due volevano affittare. Io mi ero messo a guardare da una quinta, in attesa che finisse la commedia. Ad un certo punto Cervi mi scorse e mi fece un segno di saluto con la mano. Io non ci pensai due volte: entrai in scena, mi presentai (a Cervi, perché la Pagnani era scappata subito spaventata) e dissi: “Sono stato chiuso qui per tre giorni perché il muratore mi aveva murato dentro per errore. Ora grazie a voi posso finalmente uscire e raggiungere la mia famiglia che sarà certamente in pensiero”. Strinsi la mano a Cervi sbalordito ed uscii».
Masolino d’Amico riporta lo stesso episodio con accenti ancora più assurdi, e proprio per questo ancora più probabili: «Piombò scarmigliato in scena, durante un dialogo tra la Pagnani e Gino Cervi, il quale perse per un momento il suo aplomb e gli abbaiò di scatto: “Ma lei chi è?”. “Chi sono?” fece Sordi, che all’epoca il pubblico non conosceva affatto. “Sono l’inquilino dell’appartamento accanto! Sono rimasto chiuso dentro e mi sono dovuto scavare un buco nel muro con le unghie. È da settimane che scavo…”. E continuò improvvisando un assolo interminabile».
Un’altra di queste intemerate avvenne durante le repliche milanesi di Il signore che venne a pranzo. «Gino Cervi che era di scena e che secondo le necessità del copione doveva aprire un sarcofago, ne vide sbucare improvvisamente e inaspettatamente Alberto Sordi, inappuntabilmente vestito da cameriere. “Il signore ha suonato?”, chiese, inchinandosi a Cervi che lo guardava sbalordito. “No, no, potete andare”, cercò di rispondere il povero attore, mentre sospingeva Sordi verso le quinte nell’assurda speranza che il pubblico non si accorgesse dello scherzo. E l’altro, imperturbabile: “Eppure, signore, avrei giurato di aver sentito suonare”. Cervi finì per mettersi a ridere».
Non sempre gli andava bene. Infilatosi in una cassapanca con Aroldo Tieri fra il primo e il secondo atto di Arsenico e vecchi merletti, gettò nel panico Rina Morelli, che aveva visto il coperchio della cassa muoversi misteriosamente; l’attrice si tranquillizzò quando riuscì, sempre in scena, a guardarci dentro, e Dina Galli richiuse e diede un giro di chiave, lasciandoli prigionieri e semiasfissiati fino alla fine del terzo atto.
Gli amici di Sordi lo sapevano, prima o poi uno scherzo sarebbe toccato a ciascuno di loro. Anzi, più amici erano e più pesante era il tiro che potevano aspettarsi. A De Sica, durante le riprese del Vigile, Sordi ne fece uno da togliergli il saluto. Vittorio, come si sa, era diviso fra due famiglie, quella ufficiale con Giuditta Rissone e la figlia Emi da una parte, e quella ufficiosa con Maria Mercader e i piccoli Christian e Manuel dall’altra, ed era costretto a dividersi equamente fra l’una e l’altra, nel tentativo di illudere separatamente figlia e figli che ci fosse una sola famiglia.
vittorio de sica alberto sordi il conte max
L’ultimo giorno di riprese del Vigile, Paolo Bianchini, collaboratore alla sceneggiatura di Zampa, accolse sul set De Sica, arrivato a Viterbo da Roma col suo autista. «Nel cofano», ha raccontato Bianchini, «aveva due valigie con due cambi di vestiti. Ci spiegò: “Io pranzo due volte, quando vado da Giuditta e quando vado da Maria. E devo indossare le loro cravatte, guai se mi sbaglio”. A un certo punto Vittorio è bloccato sulla barella: Sordi arriva di corsa, apre il cofano e sposta le cravatte da una valigia all’altra. In quel momento era un personaggio dei Vitelloni».
alberto sordi andreina pagnani
È fin troppo semplice fare paralleli fra il divertimento che Sordi sapeva dare a teatro, in radio o sullo schermo, e quello prodotto da queste “recite” occasionali. Ma forse questi scherzi riescono a illustrare meglio di tanti saggi la capacità camaleontica dell’attore, il guizzo luciferino dell’invenzione improvvisa, la possessione diabolica che lo prendeva alla possibilità di fingersi qualcuno, e la costanza nel diluire e rilanciare, con la massima “professionalità”, ciò che altri risolverebbero in una semplice battuta a effetto. E lasciano intravedere a quali infinite riserve di vitalità, e di folle cattiveria, potesse attingere il Sordi degli anni d’oro quando andava poi a lavorare su un vero palcoscenico, su un vero set, mescolando gusto d’osservazione, capacità d’improvvisazione e rigore d’interprete.
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