EVASIONI DI SANGUE (MEJO DI UN FILM) - L‘NDRANGHETA ASSALE LA POLIZIA PER LIBERARE IL SUO BOSS DOMENICO CUTRÌ, MUORE IL FRATELLO DELL’ERGASTOLANO MENTRE I FUGGIASCHI HANNO LE ORE CONTATE

1 - MUORE A 30 ANNI PER FAR EVADERE IL FRATELLO
Paolo Colonnello per "La Stampa"

Più che un commando, è una famiglia armata quella che alle due e mezzo del pomeriggio si presenta sotto una pioggia torrenziale davanti al tribunale di Gallarate per liberare il loro congiunto più pericoloso, Domenico Cutrì, 31 anni, calabrese, ergastolano. Perché in fondo, quando non si ha più nulla da perdere, può diventare un'idea trasformare una tranquilla cittadina di provincia in un set da far west per una delle evasioni più spettacoli e cruente degli ultimi anni.

Anche se poi finisce male: con un fratello dell'evaso morto, un altro fratello ferito a un piede che forse si è costituito (lo conferma un sindacalista degli agenti di custodia ma gli inquirenti no) e Cutrì, con i complici rimasti, che ormai ha le ore contate.

Ma sei ore prima, alle 14,45, le cose sembrano andare diversamente. Cutrì arriva su un cellulare della polizia penitenziaria per assistere all'udienza di un processo in cui è imputato per truffa e falso. Quisquilie per un tipo come lui, finito in carcere cinque anni fa per aver ordinato l'omicidio di un polacco sospettato di essere stato l'amante della sua ex fidanzata.

Dunque, piove. E a quell'ora e in quel posto, in uno slargo che si affaccia su via Milano, uno stradone solitamente trafficato che collega Gallarate a Busto Arsizio, in realtà c'è pochissima gente. Dovrebbe essere uno dei luoghi più protetti della città, ma il commando di fratelli che ha deciso di liberare Cutrì è fatto da gente della zona che conosce le abitudini e la quiete di Gallarate e sa bene che con il tempo da lupi che sferza la pianura, nel piazzale del tribunale non ci sarà nessuno. O quasi.

Il cellulare della polizia penitenziaria si ferma proprio davanti alla scalinata d'ingresso del palazzo di giustizia. Scendono in quattro, tre agenti e Cutrì. Antonio, una delle guardie che poi rimarrà ferita, saluta un amico: «Porto su questo e scendo subito per un caffè». Si sbaglia, perché intanto da due auto parcheggiate in una strada laterale, una C3 nera e una Nissan Qashqai grigio metallizzata, sono scesi non meno di quattro uomini, forse cinque, che circondano silenziosamente il furgone penitenziario. Sono armati e nervosi.

L'agente Antonio non fa in tempo a finire la frase che davanti a lui si para un uomo con la pistola in pugno che punta alla testa di un altro uomo, forse un magrebino. «Se non liberate il detenuto gli sparo in testa!». È una messinscena per disorientare le guardie. Subito dopo infatti, altri tre banditi armati spuntano da dietro il furgone.

Uno spruzza dello spray al peperoncino negli occhi di un agente, un altro colpisce il suo collega con un pugno o forse il calcio di una pistola facendolo cadere sulle scalinate, un terzo prende sotto braccio Cutrì e comincia a correre verso via Galvaligi, dove sono state parcheggiate le auto per la fuga. Un quarto, infine, aggredisce l'agente alla guida del cellulare che, sceso dal furgone, sta tentando di scappare dall'altra parte della strada: si picchiano davanti agli sguardi allibiti degli automobilisti che frenano all'improvviso. Ma sono attimi.

In pochi secondi scoppia l'inferno. I banditi cominciano a sparare. Un proiettile si conficca nella grondaia di un palazzo a fianco del tribunale sfiorando una signora che si è affacciata richiamata dai colpi. Un altro buca la base in metallo della porta a vetri di un rivenditore di auto accessori. Il titolare, Antonio I., è appena rientrato nel negozio. Mentre era al bar aveva notato un uomo proprio davanti alle sue vetrine e lo ha creduto un cliente. Invece è uno dei banditi, forse il primo che si mette a sparare.

«Stavo per aprirgli la porta quando ho notato la confusione davanti all'ingresso del tribunale, gente che urlava, altri che si picchiavano. Allora quell'uomo si è spostato di lato e ha aperto il fuoco con una sventagliata di mitra. Mi sono buttato a terra e...mi è andata bene». Davvero. Perché un proiettile trapassa la porta e gli sfiora i capelli perdendosi dietro il bancone.

«La sparatoria - racconta il commerciante - sarà durata una decina di minuti. Sparavano tutti, perché nel frattempo sono usciti carabinieri e guardie giurate dal palazzo e hanno cominciato a fare fuoco. Anche i banditi sparavano come dei matti. Quando ho rialzato la testa e ho visto dove era passato il proiettile, mi sono terrorizzato».

Chi davvero rimane colpito è uno dei banditi, Antonino Cutrì, 31 anni, fratello dell'evaso. Un proiettile lo raggiunge al collo. I suoi complici lo prendono sotto braccio e riescono a farlo salire sulla C3 nera con cui erano arrivati. L'altra auto, la Nissan grigio metallizzata, sono costretti ad abbandonarla.

Nel bagagliaio, i carabinieri di Varese hanno trovato pistole, mitragliatori e proiettili. Antonino è grave, perde sangue come una fontana. Il fratello maggiore, Domenico, decide di portarlo dalla madre che abita a Inveruno, mezz'ora di strada da Gallarate. Sarà lei, verso le 16, a presentarsi in lacrime all'ospedale di Magenta dove il ragazzo morirà poco dopo. Chi l'ha portata? Probabilmente gli stessi banditi, perché la donna è anziana e non sa guidare.

Un gesto di pietà che fa perdere tempo prezioso al gruppo di fuggiaschi e fa guadagnare agli inquirenti la certezza di avvisare i vicini valichi di frontiera con la Svizzera e organizzare diversi posti di blocco. Ed è la prima vera pista concreta in mano agli inquirenti, coordinati dal pm Raffaella Zappatini.

La madre dei Cutrì, fermata dai carabinieri, ieri sera è stata interrogata a lungo. Finché, verso le otto, sembra si sia costituito il minore dei tre fratelli, 24 anni, che da subito era stato sospettato di aver fatto parte del commando, un gruppo di disperati diventati ormai pericolosissimi. La caccia all'uomo è aperta. C'è solo da sperare che si concluda presto e bene.

2 - L'ASPIRANTE BOSS DELLA ‘NDRANGHETA CHE FECE AMMAZZARE UN RAGAZZO PER UNO SGUARDO DI TROPPO ALLA FIDANZATA
Paolo Berizzi per ‘La Repubblica'

Chi lo conosce bene dice che il suo massimo godimento è che lo chiamino "boss". Pelle e curriculum ci sono, il cognome quasi: perché quel Cutrì fa brutto e lui ci marcia. È fortemente evocativo. I Cutrì della 'ndrangheta non sono parenti, solo omonimi, ma a lui va bene così perché l'esordio, come l'epilogo di ieri, sono da vero boss. Anche se non lo è.

E' la notte del 15 giugno del 2006 e sull'asfalto di Trecate, ventimila abitanti in provincia di Novara, scorre il sangue di un giovane polacco: si chiama Lukacs Kobrzeniecki, fa il magazziniere. La sua colpa è avere lanciato una battuta sbagliata alla persona sbagliata.

La fidanzata di Domenico Cutrì. Il futuro fuggitivo di Gallarate ha solo 23 anni ma, come un capobastone ferito nell'onore, decide che un apprezzamento di troppo può bastare per smettere di vivere. Sale in macchina assieme a Manuel Martelli (l'esecutore materiale dell'omicidio: condannato a 16 anni) e affianca il ragazzo polacco. Gli spari, il mistero. Che dura poco.

Meno della sua latitanza. Cutrì viene arrestato nel 2009 in un appartamento di Milano: è assieme a Antonino che adesso ha perso la vita per la sua libertà. Gli investigatori erano sicuri: è lui il regista del delitto di Trecate, Domenico, è lui che ha organizzato tutto. Come ieri a Gallarate. Prova a costruirsi un alibi, ma è di cartapesta: chiama una ex amante, la fa salire a testimoniare. «Siamo stati in un motel a fare l'amore tutta notte», fa mettere a verbale lei. E' smentita dalle testimonianze del titolare e del portiere dell'albergo, mai visti. E' il 2011 e il passato decreta game over.

Cutrì, difeso dall'avvocato e parlamentare Giulia Bongiorno, viene condannato alla massima pena (sentenza confermata in appello). «Ho lasciato la difesa oltre un anno fa - prende le distanze Bongiorno -. Mi sono occupata di lui solo in un grado di giudizio, ho rinunciato alla difesa alla fine dell'appello».

Poi subentra un altro legale, Fabrizio Cardinali, foro di Novara. «E' all'estero », dicono da studio. Ma chi è davvero Domenico Cutri'? Perché fa così paura questo trentenne spietato e dal viso paffuto? Guardandolo viene in mente la nuova generazione dei malacarne calabresi e siciliani: facce imberbi, da bambinoni che però ammazzano e fanno ammazzare.

Sprezzanti coi giudici. Senza vergogna quando c'è da proclamarsi innocenti. E lui continuava a sentirsi una vittima. «Avete indagato in una sola direzione», ripete durante il processo per il delitto di Trecate. Chissà forse anche ieri era colpa delle manette troppo strette. Gli investigatori lo fanno molto astuto il non più giovane Cutrì. Una mente criminale pericolosa e, per certi versi, raffinata. «Di certo il commando che è entrato in azione conosceva bene il posto. E lui aveva escogitato il modo per non fallire il timing, che per un'evasione è tutto».

Il tribunale di Gallarate come ultima uscita di sicurezza. Un parcheggio stretto, nessuna scorciatoia per i blindati della polizia penitenziaria. Il furgone che lo trasportava si deve essere fermato proprio dove lo aspettava lui, e i suoi complici erano informati. Il Far West ti può sfuggire di mano. Ma questa doveva essere la volta buona, aveva deciso Domenico l'ergastolano. «E' vero che, da come hanno aggredito gli agenti, non sembra che proprio tutto sia stato studiato a tavolino - spiega un uomo che conduce le indagini -. Ma è anche vero che un'evasione di questo tipo, a quell'ora, durante un trasferimento, fa venire in mente gente tipo Vallanzasca». O Arsenio Lupin. «Un episodio così non l'ho mai visto in 40 anni», dice Luigi Pagano del Dap.

Per quanto è noto ai casellari giudiziari, i Cutrì in questi anni hanno trafficato in droga e armi, fatto rapine. Ma non erano e non sono un "cartello", non sono affiliati a nessun clan. Non ufficialmente, almeno. Non risulta in nessuna indagine. Domenico però aveva deciso che lui era e doveva essere un boss, azione spettacolare compresa.

Di origini calabresi, la famiglia emigra al Nord negli anni '60 da Melicuccà, provincia di Reggio Calabria. Prima il Piemonte, poi la Lombardia tra Milano e Varese. I fratelli si impegnano, campano di malavita e quell'ergastolo beccato da Domenico non li ferma. «Delinquenti comuni, ma pericolosi», li descrivono a Varese. Chiedere ai genitori di Luckasz Kobrzenieki. «Era un bravo ragazzo, che non aveva mai fatto nulla di male». Già.
Ha solo incrociato i bravi ragazzi, e il più folle era proprio lui, quello che lo ha condannato a morte e che adesso è in fuga come un cane braccato.

 

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