FISCO ROTTO – UNA SENTENZA POSTUMA DÀ RAGIONE AL MAESTRO ABBADO: LA CASSAZIONE ANNULLA UN CONTENZIOSO CON L’AGENZIA DELLE ENTRATE VECCHIO 40 ANNI – TUTTO FINITO? MACCHÉ, GLI EREDI DOVRANNO FAR VALERE IL GIUDIZIO ALLA COMMISSIONE TRIBUTARIA. INTANTO, OLTRE AD ABBADO, SONO MORTI ANCHE I GIUDICI CHE AVEVANO GESTITO IL CASO…
Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera”
Festa grande, lassù tra le nuvole. Quarantadue anni dopo la dichiarazione dei redditi del '76 contestata dai giudici e quattro anni e mezzo dopo essere morto, il maestro Claudio Abbado l' ha avuta vinta in Cassazione. Evviva.
E brindisi celeste col suo avvocato Victor Uckmar, lui pure defunto come parecchi protagonisti della vicenda. Non hanno saputo aspettare i tempi della giustizia nostrana. Oddio, anche Sophia Loren dovette aspettare 39 anni perché le dessero ragione su un contenzioso col fisco del '74.
Quarantadue, però, sono proprio tanti. Avete presente il 1976? Al Quirinale c' era Giovanni Leone, a Palazzo Chigi Aldo Moro che poi passò la campanella a Giulio Andreotti, a Sanremo vinceva Peppino di Capri, la Serie A vedeva il trionfo del Torino di Paolino Pulici e Corrado presentava il primo programma del dì di festa, Domenica In.
Claudio Abbado aveva allora 43 anni, era già da otto direttore musicale alla Scala dove era stato nominato appena trentacinquenne ed era lanciatissimo. Vicino alla sinistra e bollato dai nemici come una «bacchetta rossa», finì nell' elenco dei presunti peccatori nell' aprile 1978.
Quando il Corriere pubblicò la notizia che «il nome del noto musicista figurava ieri mattina nel ruolo di udienza dell' ottava sezione penale del tribunale». Era accusato, con «l' ex "ugola d' oro" Simonetta Lippi» e altri d' aver «costituito una disponibilità valutaria all' estero, oltre a non aver rispettato l' ultimatum per il rientro dei capitali esportati».
Il tutto nel contesto di un' inchiesta del pm Nino Fico «chiamata il "racket della lirica": una indagine colossale che coinvolge quasi tutti gli enti lirici italiani e le istituzioni concertistiche» colpiti da «più di cento comunicazioni giudiziarie».
Il 1° maggio, sul Giorno, il maestro giurava a Wladimiro Greco: «Non ho mai esportato valuta». Di più: «Ho regolarmente denunciato, secondo le leggi, l' unico bene immobile da me posseduto all' estero.
Si tratta di un appartamento di 59 metri quadrati. Ho sempre rispettato tutti gli obblighi fiscali e valutari conseguenti alle mie attività sia in Italia che all' estero e tutto ciò sarà riaffermato e provato in giudizio mediante l' esibizione di documenti ufficiali».
E l' accusa di aver «dirottato» i redditi dalle quote di partecipazione azionaria alla Deutsche Grammophon?
«Non ho mai acquistato né posseduto azioni di detta casa. Con la Deutsche Grammophon ho semplicemente un rapporto di lavoro, peraltro non esclusivo». Tesi confermata subito dall' etichetta discografica tedesca. «Il maestro è amatissimo e odiatissimo», spiegava il cronista, «Quest' infortunio va considerato come un episodio tra i tanti procuratigli dalle sue "acerrime amicizie" e dalle sue "benevoli inimicizie"».
Certo è, annotava, che anche «due anni fa gli venne mosso il rilievo che la sua dichiarazione dei redditi fosse nettamente inferiore alla realtà (45 milioni denunciati, contro i 90 percepiti). Anche in quella occasione il maestro replicò con annoiato sdegno».
Aveva ragione lui? Aveva ragione il magistrato? Mai come in questo caso, che coinvolgeva un direttore d' orchestra di successo mondiale, sarebbe stata opportuna un' inchiesta condotta con il massimo rigore in tempi brevissimi. Macché. Anni e anni di processi, rinvii, verdetti, paginate sui quotidiani e le riviste, ricorsi e controricorsi Il tutto splendidamente inaugurato dalle cronache del 29 maggio 1978: «Il processo, stralcio di una più vasta inchiesta, si celebra con rito direttissimo». «Direttissimo»? Un tormentone di quattro decenni.
Superiore perfino all' interminabile esodo nel deserto degli ebrei guidati da Mosè, esodo che secondo il Deuteronomio di anni ne durò trentotto.
Un' eternità. Durante la quale lo scontro è andato avanti, avanti, avanti... Di qua lui, il Maestro, che insisteva: «I compensi da me percepiti, e in particolare quelli provenienti dalla Scala, sono stati sempre da me regolarmente ed esattamente denunciati in sede di dichiarazione dei redditi». Di là gli accusatori, in prima fila il consigliere comunale milanese dc Antonio Velluto: «Si rileva un notevole divario tra ciò che Abbado prende dalla sola Scala e ciò che dichiara al fisco».
Divario sottolineato nell''81, al processo per la querela di Abbado a Velluto, dalla deposizione di Carlo Maria Badini, dal '77 sovrintendente alla Scala: «Il maestro Abbado ha ricevuto dal nostro ente 88 milioni nel 1975, 105 milioni nel 1976, 79 milioni nel 1977, 152 milioni nel 1978 e 58 milioni nei primi tre mesi del 1979. Il tutto naturalmente al netto delle ritenute fiscali».
Nuove accuse. Nuove arringhe difensive. Nuove polemiche. Sempre di qua gli amici, sempre di là i nemici. Perfino, cinque anni fa, dopo la nomina del Maestro a senatore a vita e il suo annuncio che avrebbe «rinunciato allo stipendio per devolverlo alla scuola di musica di Fiesole».
L' altro giorno (era ora!) la sentenza della Cassazione. La quale ha dato torto sia all' Agenzia delle entrate (che aveva emesso «un avviso di accertamento di rettifica del reddito per 77 milioni di euro, presumendo che per quell' anno Abbado avesse guadagnato di più») sia alla Commissione tributaria centrale della Lombardia che nel 2011 aveva confermato quella cifra scrivendo che «la natura dell' attività del maestro, la sua conquistata fama internazionale e la richiesta internazionale delle sue prestazioni» potevano ben «costituire appropriati elementi di giudizio per la definizione di un adeguato indice di capacità contributiva».
No, dice la Suprema Corte annullando le sentenze precedenti: «La notorietà del maestro e l' attività internazionale sono circostanze generiche e astratte, che non danno contezza del percorso logico-giuridico seguito dal giudice nel pervenire alla determinazione della sussistenza di un maggior reddito non dichiarato».
Insomma, l' elemento «indiziario» della fama andava «valutato unitamente ad altri elementi». Tutto finito, finalmente?
Macché. Adesso, ha spiegato all' Ansa l' avvocato Giuseppe Corasaniti, «gli eredi di Abbado dovranno subentrare nel contenzioso entro sei mesi», facendo valere il giudizio della Cassazione alla Commissione tributaria, oppure «il processo che ha dato loro ragione si estinguerà e rivivrà l' atto impositivo che Abbado e Uckmar avevano impugnato». Auguri.
Nel frattempo, oltre ad Abbado e Uckmar, sono morti l'«arcinemico» Antonio Velluto, i soprintendenti Paolo Grassi e Carlo Maria Badini, il giudice Generoso Petrella che aveva gestito la prima querela Sinceramente: e pensiamo di poter tenere botta in Europa così?