SONO SEMPRE I PEGGIORI CHE SE LA SVIGNANO – ARIBERT HEIM, IL “DOTTOR MORTE” DI MAUTHAUSEN, FACEVA OPERAZIONI SENZA ANESTESIA ED È MORTO TRANQUILLAMENTE AL CAIRO NEL 1992

Mirella Serri per “la Stampa

 

Aribert  Heim Aribert Heim

«Ehi, bionda!», così i militari americani nel 1948, a Heidelberg, apostrofavano Friedl Bechtold che pedalava con la fascia della Croce Rossa al braccio. Laureata in medicina, Friedl non dava retta ai ragazzi in jeep, ma fu invece colpita dai modi garbati di un giovanotto biondo alto quasi due metri che l’abbordò per strada. Era austriaco ed esercitava anche lui la professione di medico.

 

L’ex nazista Aribert Heim, incontrando la giovane donna appartenente a una benestante famiglia tedesca che lo aiuterà nella sua rocambolesca fuga dalla Germania, fece così la sua fortuna. Heim, in un primo momento, nascose anche a Friedl il suo passato di ispettore dei Lager.

 

Il suo avvocato successivamente sostenne che il dottore era stato arruolato nelle Waffen-SS «contro la sua volontà». Evitando di riferire che aveva compiuto molte operazioni cruente sui prigionieri di Mauthausen. Adesso, a raccontare la vera storia della vita di Heim, e a chiarire il mistero dell’inafferrabilità del Dottor Morte(Mondadori, pp. 315, € 17) - così soprannominato dagli internati del Lager per la sua ferocia - sono due grandi firme del giornalismo, Nicholas Kulish e Souad Mekhennet.

Mauthausen      Mauthausen

 

I due segugi del New York Times hanno inseguito le tracce del nazista che più a lungo è stato ricercato in tutto il mondo. E ne hanno ricostruito per la prima volta la vita in clandestinità quando, dall’inizio degli Anni Sessanta, ha vissuto sotto falso nome in un alberghetto del Cairo, si è convertito all’Islam e ha prodotto libelli antiebraici.

 

Ma come è stato possibile che Heim, morto nel 1992, additato dai sopravissuti come uno sperimentatore della «medicina nazista» alla Josef Mengele, sia sfuggito alla giustizia e anche alla tenacia di un investigatore, Alfred Aedtner, che collaborava con il persecutore di ex camicie brune Simon Wiesenthal?

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In un primo momento, nell’immediato dopoguerra, erano arrivate molte testimonianze sulle sue capacità nell’esimersi, sia al fronte sia nei campi di sterminio, «da azioni che violavano i diritti umani». Il pastore Werner Ernst Linz aveva dichiarato che «era un oppositore convinto dell’eutanasia e delle teorie razziali nazionalsocialiste». Parole che però furono messe in dubbio dall’inchiesta del Dipartimento di Pubblica sicurezza dell’Assia.

 

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Quando il dottore venne a sapere che su di lui si addensavano delle ombre, si fece uccel di bosco. Chi gli comunicò l’interessamento delle autorità? Stavano venendo alla luce i libri sottratti alla distruzione dall’impiegato-detenuto di Mauthausen, Martin, e in particolare il registro degli interventi chirurgici su cui compariva la firma di Heim. Arrivarono anche le memorie di testimoni, come quella dell’infermiere Karl Kaufman che descrisse l’entusiasmo con cui Heim infliggeva le punizioni.

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«Anziché colpire con la frusta le natiche come facevano gli altri», spiegò l’assistente, «mirava sempre ai reni, per cui molti morivano di emorragia interna». Faceva iniezioni di petrolio nel torace, compiva operazioni senza anestesia, come quella su un sanissimo giovane ebreo praghese a cui asportò il fegato. Parlava affettuosamente ai detenuti e poi ficcava loro un ago nel cuore.

 

Mentre emergevano dettagli sempre più agghiaccianti, il medico scomparve. Ancora una volta era stato allertato e fu aiutato dalla suocera e dalla sorella ad approdare prima in Marocco e poi in Egitto. Heim riuscì a occuparsi con successo dei suoi affari immobiliari, lasciando alla sua morte, nel 1992, un patrimonio di un milione di dollari.

 

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Come fu possibile che le ricerche facessero sempre un buco nell’acqua? Il caso Heim, spiegano gli autori, oggi ci aiuta a capire le difficoltà che incontrano le nazioni impegnate a condannare i crimini di guerra. In Germania l’atteggiamento nei confronti degli ex nazisti per anni fu molto ambiguo, anche perché in un primo momento a occuparsi dei criminali furono le forze d’occupazione alleate. Accusate però dalla maggioranza dei tedeschi di voler imporre la giustizia dei vincitori, arbitraria e punitiva.

 

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Successivamente, quando furono giudici e politici locali a scovare i massacratori, vennero chiamati dai connazionali «traditori» mentre le denunce venivano insabbiate dalle ex camicie brune che occupavano posizioni di prestigio nelle forze di polizia, nei tribunali, perfino alla Cancelleria di Bonn.


Il percorso della Germania nel chiarire le responsabilità dell’Olocausto è stato dunque lungo e tortuoso ma fondamentale nel preparare il terreno per il Tribunale penale internazionale e nel far capire l’importanza di perseguire gli assassini anche a distanza di anni. Il caso del Dottor Morte ancora oggi ci insegna molte cose: per la caccia ai colpevoli bisogna anche cercare di trasformare con un’azione politica e culturale il contesto in cui si svolge, altrimenti può rivelarsi una lotta contro i mulini a vento.

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