GAUCHE ALL’AMATRICIANA: DALLA “MILANO DA BERE AL CASTELMAGNO DA MANGIARE” – ANCHE “IL MANIFESTO” SI CONVERTE ALLA TAVOLA: UN INSERTO DI OTTO PAGINE PER FARE CONCORRENZA AL “GAMBERO ROSSO” – FEDELI AL MOTTO “FANTASIA AL POTERE”, IL TITOLO E’ “GAMBERO VERDE” – I GASTROFIGHETTI COL TOVAGLIOLO AL COLLO
Francesco Borgonovo e Carlo Cambi per la Verità
Un' eresia per sentirsi borghesia, un' abiura per raccattare con un cucchiaio le origini contadine dimenticate e disperse, ma sostanzialmente la dimostrazione che la nostrana sinistra ha poco da invidiare al bifolco manzoniano: Franza o Spagna purché se magna. E infatti ha sempre coltivato - quasi in un complesso metafreudiano - l' invidia del bene.
Nasce da questo il Gambero rosso, quasi in contemporanea con Arcigola che diventerà ben presto Slow food. Un' indagine sociopolitica su questi fenomeni - che hanno trasformato gli esegeti del Capitale di Karl Marx nei profeti della fettunta, alimentando in Italia il pecoreccio alimentare della «gauche caviar» - non è stata ancora condotta. Ma non ci vuol molto a mettere insieme date, fatti e personaggi per capire come mai si è passati dalla chiave alla crema inglese e come mai a un certo punto tra Gambero rosso e Slow food si sia prodotta una frattura insanabile: quasi che il martello non potesse andare insieme alla falce, come in effetti nella sinistra italiana è sempre successo. I contadini sono stati, nella vulgata del Pci, una subordinata degli operai.
Gambero rosso e Arcigola nascono praticamente in contemporanea sotto il secondo governo di Bettino Craxi. Sì, non lo ammetteranno mai, ma il loro brodo di coltura è stato il craxismo. È nella Milano da bere che si sviluppano i lieviti per la svolta gastronomica della sinistra all' amatriciana. Stefano Bonilli è un bolognese che ha fatto il '68 e il' 77, si nutre dei salotti bene dell' intellighenzia rossa, amicissimo di quel Romano Montroni che è stato il deus ex machina del successo delle librerie Feltrinelli, in corrispondenza con Paola Pallottino, con Umberto Eco, se ne sta al caldo nel tuorlo dell' uovo rosso di Bologna la grassa.
E ha nostalgia dell' Osteria delle Dame dove il padre domenicano Michele Casali officia il più raffinato cattocomunismo con colonna sonora di Francesco Guccini. Ha presenti le sfogline delle feste dell' Unità, ma anche gli agi della buona borghesia con il portafoglio a destra e il cuore a sinistra. E in perfetto edonismo craxiano s' inventa per Il Manifesto un inserto di 8 pagine dedicato al buon mangiare e al meglio bere. Per capire lo stile basti pensare che il progetto grafico lo realizza Piergiorgio Maoloni, l' architetto dei giornali che aveva disegnato anche il simbolo di Psi e Radicali e si dedica pure al disegno della testata del Gambero Rosso.
L' intento è triplice: ripigliarsi un po' di lettori che Repubblica aveva eroso, fare spazio a una visione nuova della sinistra più dialogante con i piaceri della vita e cominciare a smetterla di essere poveri, ma belli: meglio sentirsi ricchi e sazi. Alla sinistra, con la cucina, era successo quello che era accaduto ai contadini con i mobili di casa: quando avevano acceduto alla modernità si erano venduti le madie del Cinquecento (facendo ricchi gli antiquari) per i tavolini di formica da sfoggiare nelle case alveare costruite dagli Agnelli, così gli operai pensavano che occuparsi di mangiare fosse roba da ricchi.
E in effetti, in parte, lo è. Bonilli ha l' intuizione di entrare in quel mondo. E la fa usando la porta eretica dei sinistri intellettuali e da salotto del Manifesto e salendo sul carro agricolo di Carlo Petrini che in quel di Bra ha deciso di fondare l' Arcigola. L' idea di Petrini è: per combattere il fast food, l' idea dell' efficienza, l' idea che la vita sia fatta solo di successi, coltiviamo un po' di eccessi, la lentezza e le nostre radici. Insomma alla Milano da Bere, contrapponiamo il Castelmagno da mangiare. E così nasce il manifesto dello Slow food che viene firmato a Bra nel 1986 ma che è redatto materialmente, a Montalcino.
Sono Carlo Petrini e i suoi 12 apostoli (tra cui anche Stefano Bonilli): Folco Portinari, Valentino Parlato, Gerardo Chiaromonte, Dario Fo, Francesco Guccini, Gina Lagorio, Enrico Menduni, Antonio Porta, Sergio Staino, Ermete Realacci, Gianni Sassi.
Si capisce tutto: è un cacciucco di radicali, ambientalisti, sinistri e craxiani. È quel milieu che fa di tutto per piacere alla gente che piace. Bonilli e Petrini firmeranno insieme la prima Guida dei vini d' Italia, poi Bonilli se ne andrà per la sua strada. Fonda la casa editrice, prova a giovarsi dei capitali del principe Caracciolo, ma il matrimonio con il gruppo Espresso-Repubblica dura una sola estate. Con una certa superiorità antropologica: andiamo a cena dove si spende in una sera quello che un precario guadagna in un mese, ma siamo felicemente di sinistra.
Intanto il Gambero rosso è diventato una holding e Arcigola è diventata Slow food e continua a difendere i contadini. Peccato che i loro prodotti possano permetterseli solo i ricchi. Perché la tavola imbandita con i prodotti dell' Eataly di Oscar Farinetti resta un roba da ricchi. I quali si apparecchiano grazie alla sinistra anche un bel digestivo morale: il nuovo capitolo di questo inganno è il «cibo verde». Che presuppone che tu abbia quattrini in tasca e una cospicua supponenza antropologica.
Non a caso, il nuovo inserto del Manifesto, uscito ieri per la prima volta, si chiama Il Gambero verde, e si definisce «settimanale ecologista», anche se poi - ovviamente - si occupa di cibo. Quello «eticamente corretto», perché se l' uomo è ciò che mangia, allora l' uomo moralmente superiore deve portarsi la superiorità nel piatto. Il suo pasto dev' essere rispettoso dei diritti, delle minoranze e delle diversità. Dev' essere «contro il sistema». E infatti sulla copertina del nuovo inserto del «giornale comunista» appare la firma di Marx in persona, tramite citazione del libro terzo del Capitale: un passaggio dedicato alla terra.
Oddio, che sia la sinistra antiglobalista del Manifesto a celebrare la madre fertile un po' di senso ce l' ha. Un po' più stravagante è che a tentare la sorte sia il Pd. Ci prova, per dire, il ministro delle Politiche agricole, Maurizio Martina, nel libro fresco di stampa Dalla terra all' Italia (Mondadori), in cui canta le lodi di una «nuova generazione agricola», cita Yunus ed Ermanno Olmi e poi imbastisce un «richiamo alle radici» un po' traballante.
Perché la grande contraddizione dei progressisti italiani è sempre quella. Finché si tratta di assaporare i vini pregiati di Massimo D' Alema, non ci sono problemi. I guai cominciano quando bisogna difendere le tradizioni rurali, conciliare l' ideologia «green» e le istanze dei produttori di carne. In sottofondo, infatti, si nota sempre un certo imbarazzo: perché va bene proteggere il «made in Italy», ma far la figura dei reazionari non si può. Tutelare la tradizione contadina, per dire, significa pure riscoprire il senso dei limiti e dei confini, il rispetto della natura troppe volte offesa dalla tecnica e dalla globalizzazione sregolata.
Quando si comincia a battere questo sentiero, l' intellettuale di sinistra incespica, zoppica, traballa. La terra gli piace se è quella in cui Michele Serra e consorte possono coltivare allegramente la lavanda, ma se poi il contadino vota Donald Trump o Matteo Salvini, subito si precipita nella disperazione e si riscopre il disprezzo per il bifolco ignorante.
NORMA RANGERI E E GUGLIELMO PEPE
L' imbarazzo di cui parliamo l' ha colto alla perfezione Antonio Albanese, nel libro appena uscito Lenticchie alla julienne (Feltrinelli), in cui fa vivere una delle sue più riuscite caricature. Quella dello chef stellato Alain Tonné, capace di sfornare «Prosciutto cavernicolo con fichi acrobatici» piuttosto che «Gabbiano in crosta» o «Alghe sferificate all' alito di cernia». Albanese (da tempo, a dire il vero) irride i gastrofighetti patologici e snob, punzecchia i sommelier e i grandi cuochi rosolati nell' arroganza. Solo che i suoi bersagli sono le stesse persone che lo ammiravano nello studio di Fabio Fazio. Quelli che gustano un piatto stellato da centinaia di euro e poi ingollano un vino d' autore per mandare via il retrogusto di senso di colpa.