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POLVERIERA CISGIORDANIA – L’IRA E LA FRUSTRAZIONE PER LE STRADE DI JENIN DOVE UN’INTERA GENERAZIONE STA CRESCENDO NEL MITO DELLA NECESSITÀ DI MORIRE PER LA LIBERTÀ: LE IMMAGINI DEI CADUTI TAPPEZZANO LE CITTÀ, A LUGLIO C’ERA STATA UNA PESANTE OPERAZIONE DELL’ESERCITO ISRAELIANO E DAL 7 OTTOBRE LA SITUAZIONE È PEGGIORATA CON I BOMBARDAMENTI DELL’AVIAZIONE PER EVITARE PERDITE TRA I SOLDATI – ED È TRA LE MACERIE E SOTTO LE BOMBE DI ISRAELE CHE STA AVVENENDO LA METAMORFOSI: “QUI HAMAS NON È MAI STATA DI CASA. ERAVAMO SOCIALISTI, NON FANATICI RELIGIOSI, MA…”

Estratto dell’articolo di Lorenzo Cremonesi per il “Corriere della Sera”

 

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Pane, latte, resistenza, guerra e martirio: difficile trovare parole di pace per le viuzze strette, la sporcizia, le macerie degli ultimi raid israeliani che coprono quelle più vecchie, nel campo profughi oggi più bollente della Cisgiordania. Un’intera generazione sta crescendo nel mito collettivo della lotta armata e della necessità di morire per la libertà.

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Le immagini dei loro caduti tappezzano le strade, le piazze, i muri della moschea, i memoriali improvvisati con le loro foto in cui sono ritratti col mitra in mano, la bandana verde con i motti della battaglia inneggianti ad Allah attorno al capo e le strisce di munizioni appese al petto. Jenin: qui gli scontri sono periodici, in luglio c’era stata un’operazione pesante dell’esercito israeliano, dal 7 ottobre le cose sono peggiorate e soltanto giovedì scorso negli scontri con i soldati sono morti una quindicina di ragazzi. Israele ha anche utilizzato l’aviazione, bombardando dall’alto per evitare di perdere uomini nelle imboscate.

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La metamorfosi «Qui Hamas non è mai stata di casa, noi siamo parte della tradizione militare del Fatah, di Yasser Arafat e del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Una volta eravamo socialisti, non fanatici religiosi. Ma anche a Jenin le cose stanno cambiando», ci dice Mohammad Masri, dirigente del Comitato Popolare del Fatah, l’organizzazione locale che controlla la municipalità in coordinamento con il governo dell’Autonomia presieduto da Mahmoud Abbas a Ramallah.

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Cosa pensi di Hamas? Chiediamo a Ibrahim, che ha 16 anni e va ancora a scuola.

«Hanno fatto benissimo, li sostengo al cento per cento, vorrei essere uno di loro, anche se mio fratello più grande ha scelto di combattere per la Jihad islamica», risponde come se fare parte di un’organizzazione della guerriglia fosse la cosa più normale della Terra. […]

«Venite a vedere» Per cercare parole più moderate ci rechiamo dal 43enne Mustafa Sheva, che dirige il «Freedom Theater», un’istituzione culturale fondata assieme ad alcuni intellettuali israeliani nel 2006 e che ha sempre cercato il dialogo tra le sue società. Lui però reagisce subito offeso quando gli chiediamo delle atrocità commesse da Hamas il 7 ottobre nelle località israeliane prospicenti Gaza.

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«Sono davvero arrabbiato con voi giornalisti occidentali che, come prima cosa, mi chiedete di condannare Hamas. Certo che nessuno di noi è d’accordo con l’uccisione di civili innocenti. Però, dovete assolutamente tenere conto del contesto in cui sono avvenute. Venite a vivere un poco da noi. Venite a vedere gli abusi quotidiani commessi dai soldati, o ancora peggio dai coloni ebrei con il pieno sostegno dell’esercito. Tenete conto delle nostre terre confiscate, dei posti di blocco, delle vessazioni quotidiane, delle ingiustizie assurte a sistema di oppressione politica crescente mirata a privarci della nostra identità nazionale.

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E allora capirete perché tanta gente, che pure non ha mai sostenuto il fanatismo religioso islamico, oggi plaude ad Hamas», dice tutto d’un fiato. A suo dire le simpatie per Hamas sono cresciute specialmente tra i 17 mila rimasti nel campo profughi. Ma anche i 75 mila abitanti della città sono oggi più propensi a dimenticare la vecchia lealtà al Fatah per il fronte islamico. […] Ibrahim Abed, che ha 46 anni, è pediatra nell’ospedale locale e si dice «davvero disperato».

 

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«Sino a qualche anno fa speravo ancora nei due Stati. Oggi non più: o combattiamo la guerra santa o emigriamo, io sto pensando seriamente di andare negli Emirati», ammette. Tornando verso Gerusalemme proviamo sulla nostra pelle le difficoltà dei posti di blocco. In genere bastano meno di due ore di auto, ma i soldati costringono a gimcane impossibili che alla fine dureranno quasi sette ore .

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