QUELLA VOLTA CHE MICHELA MURGIA SI TRAVESTI’ DA UOMO: “UN GIORNO LEGGO UN INVITO A PARTECIPARE A UN CAMPO LESBICO DOVE C'ERA TRA LE ATTIVITÀ UN LABORATORIO DI DRAG KING, CIOÈ SEDUTE DI DONNE CHE LAVORANO PER SEMBRARE DEI MASCHI. VADO, CI FANNO UN TRUCCO DI QUELLI CINEMATOGRAFICI. MI COMPRIMONO IL SENO, MI ATTACCANO UNA BARBA PELO PER PELO, LA VESTIZIONE DURA SEI ORE. MI DICONO COME MUOVERMI, COME STARE, AGIRE. ALLA FINE MI DICONO DI ANDARE IN UN POSTO DOVE NON ANDREI O DOVE NON MI SENTO MAI AL SICURO. VADO NEL SOTTOPASSAGGIO DELLA STAZIONE DI PIRAMIDE. E PASSARE LÌ SOTTO SEMBRANDO UN MASCHIO, MI FA SCOPRIRE CHE…”
Da “la Stampa”
Pubblichiamo, per gentile concessione di Raiplay, la trascrizione di una parte della
lectio di Michela Murgia per “5 scrittori e la paura”, una performance teatrale trasmessa dalla Rai nel 2021(tuttora disponibile sulla piattaforma online di Raiplay)
Parlare di paure è dissacrante, perché le paure sono l'altro nome delle debolezze. E parlare delle proprie debolezze non piace a nessuno, tranne che agli scrittori. Se uno non ha paura, non ha inquietudine, non ha assenze da gestire, fa un altro mestiere: questo lavoro si fa col disagio. Fra tutti i luoghi dell'immaginario, quello dove abitano le paure è il più politico. Se metti in una stanza 20 persone a cui chiedi quale idea politica abbiano, verranno fuori 21 idee diverse. Ma se metti 21 persone in una stanza e chiedi loro di dirti le loro paure, almeno una in comune ce la abbiamo tutti.
Grazie a quella paura in comune è possibile superare le differenze ideologiche e innestare su di essa un discorso politico. Naturalmente, un discorso politico che si regge sulla paura non vuole risolvere la paura: vuole nutrirla. Lo abbiamo visto succedere molte volte in questi anni: consensi politici sono stati costruiti, a destra e sinistra indistintamente, cercando che cosa temevamo e provando poi a organizzare quei timori secondo sistemi simbolici che non erano mai risposte, perché una paura risolta è un consenso a cui non si può più fare appello.
Quando ho cominciato a interessarmi di paure, l'ho fatto con un approccio del tutto politico. Siamo orientati a pensare che le paure siano uguali per tutti, che il genere umano ha paura della stessa cosa. Io non ci credo. Ci sono paure che sono di tutti e altre solo di alcuni e quelle che sono di alcuni, sono impenetrabili per chi non ha quella paura. L'incomprensione che si genera dall'incontro di due paure diverse è veramente incolmabile perché sulle idee tu ti puoi confrontare, ma sulle paure no.
Ho cominciato a pensare a questa cosa quando sono venuta a vivere a Roma. Vengo da un paese piccolo, dove ci conoscevamo tutti a sufficienza da far sì che i male intenzionati non potessero palesare le loro intenzioni perché si sapeva di chi erano figli: la mappatura del sangue inchiodava alle responsabilità. Quindi io mi sono abituata a vestirmi in un certo modo.
COSTANZA MARONGIU MICHELA MURGIA
Ho un corpo procace e amo le scollature, mi sono sempre piaciute. A Roma, mi vestivo all'inizio come a Cabras e tutte le volte che lo facevo provavo un fortissimo disagio perché mi succedeva di essere apostrofata in strada con quello che adesso ha un nome, si chiama catcalling, cioè chiamare i gattini - ehi bona che tette che cosa ti farei! -, una roba che al mio paese non sarebbe mai potuta succedere perché mi sarei girata e avrei detto: ah, ma tu non sei il cugino di quello. E sarebbe finita lì.
Invece a Roma degli uomini in strada potevano impunemente dire tutto quello che gli veniva in mente di fare con il mio corpo, e nel momento in cui veniva pronunciato io me lo sentivo fatto. Mi rendevo conto che in quelle parole, in quelle intenzioni, non c'era un complimento: c'era una minaccia, almeno io la percepivo così. Potrei raccontare quel primo anno e mezzo a Roma attraverso il modo in cui è cambiato il mio armadio: sono arrivata che mi vestivo come Jessica Rabbit, e l'ultimo mese mi vestivo come un pescatore del baltico a maggio. Prendevo tutta una serie di accorgimenti che mi facevano sentire più al sicuro ma anche a disagio: mi guardavo e non mi ritrovavo. Io ero i miei vestiti colorati e le scollature la voglia di impormi al mondo nella mia tridimensionalità: volevo che si vedesse tutto il mio spessore. E invece non potevo più farlo.
Un giorno a Trastevere leggo un invito a partecipare a un campo lesbico dove c'era tra le attività un laboratorio di drag king, cioè sedute di donne che lavorano per sembrare dei maschi: non super maschi pompati e virilissimi, ma dei maschi realistici, normali. Mi incuriosisco, sull'annuncio era scritto: sperimenta il sentirti sicura. Mi iscrivo, vado, il laboratorio è pazzesco. Ci fanno un trucco di quelli cinematografici. Mi comprimono il seno, arriviamo da una sesta a una terza e mi attaccano una barba pelo per pelo, la vestizione dura sei ore.
E poi la postura: mi dicono come muovermi, come stare, agire, fermarmi. Alla fine mi dicono di andare in un posto dove normalmente non andrei o dove non mi sento mai al sicuro. Vado nel sottopassaggio della stazione di Piramide. E passare lì sotto vestita come un maschio e sembrando un maschio e nella sostanza proiettando un'identità maschile, mi fa scoprire il super potere dell'invisibilità. Cammino e gli altri maschi non mi guardano. Non mi vedono.
Quella specie di invisibilità protettiva mi apre gli occhi in modo drammatico: mi dico che anche i miei amici meglio intenzionati non possono capire quando racconto loro che a Roma ho paura, perché se hanno vissuto in questa invisibilità è chiaro che non potrò mai trasferirgli la mia sensazione. Loro entrando qui dentro possono avere al massimo paura di venire derubati. Come si fa a far capire che quella paura che abbiamo è vera, a persone che ci vogliono bene ma tutto questo non lo vivono?
Su TikTok qualche settimana fa parte un trend: le donne devono rispondere alla domanda "Cosa faresti se per 24 ore gli uomini sparissero"? Ho salvato alcune risposte: "Vado a fare una passeggiata di notte"; "Me ne andrei a ballare per le strade alle 3 del mattino senza aver paura di morire"; "Correrei ascoltando musica con tutte e due le cuffiette".
Non credo che gli uomini abbiano la percezione che esista una paura così radicata nei loro confronti. Se un uomo si vestisse da donna e facesse la stessa cosa che ho fatto io nel tunnel, non vivrebbe la stessa esperienza. Perché chi è cresciuto in sicurezza tutta la vita si può travestire da quello che vuole. Passare da un rango di privilegio a un rango di assenza (simulata) di privilegio non ti fa perdere la sicurezza originaria: ti fa magari notare che qualcuno ti guarda. Come si fa a risolvere questa cosa?
È molto difficile cambiare comportamenti radicati, ci vuole una volontà ferrea, soprattutto se quel comportamento è un vantaggio per te: perché dovresti rinunciare a una condizione che ti porta dei benefici? Perché dovresti diventare quello che ha paura anziché quello che la incute? Se quel giorno lì, in quel tunnel, fosse passata una donna e mi avesse guardato e avesse visto in me l'uomo che non ero e mentre la fissavo avesse letto nel mio sguardo una potenziale minaccia, se io mi fossi accorta che quella donna aveva paura di me perché vedeva un uomo, chissà che cosa mi sarebbe scattato dentro.
Magari l'avrei seguita, per vedere quanta paura puoi fare quando sei tu quello forte. Quanto forte puoi diventare se l'altro corre più veloce perché è debole? La scrittrice Naomi Alderman in Ragazze elettriche si è fatta questa domanda ed ha immaginato un mondo in cui le donne in pubertà sviluppano un super potere: dare la scossa. Tutto semplice: ti tocco e ti fulmino, e decido io il voltaggio. Alderman mette in scena donne potenti, che hanno finalmente uno strumento che le rende più forti: e si comportano esattamente come i maschi hanno sempre fatto.
michela murgia a otto e mezzo 5
E questo non significa che non bisogna ribaltare i rapporti di forza: significa che non è la quantità di forza l'elemento su cui riflettere, ma è il modello di potere che, se passa semplicemente di mano, non cambia niente, semplicemente inverte il rapporto vittima carnefice, ma non ne discute profondamente l'ossatura. Cosa può succedere se il posto della paura si inverte?
Non ho la risposta e non la ha neanche Alderman in quel libro perché la letteratura è uno spazio in cui le domande possono sopravvivere, e ci sono domande che non meritano di essere uccise da una risposta: la loro complessità è tale che la risposta può e deve cambiare, e dev'essere continuamente ricercata generazione dopo generazione. Quindi il libro di Alderman resterà a porre quella domanda alle ragazzine e alle loro madri dovunque lo leggano.
A noi rimane la strada di Roma su cui dobbiamo continuare a camminare. Rimangono i nostri compagni. E agli uomini che vogliano capire questo meccanismo, rimane la possibilità di ascoltare esperienze che possono spostarli da quella privilegiata in cui si sono formati.
Non so come finisce questa strana lectio, so soltanto che se di questa paura non si parla, se questa paura non viene rivelata e tematizzata, tratta come un dato collettivo e anche un bene collettivo - perché le paure di un gruppo umano sono il modo in cui quel gruppo ti sta dicendo devi prenderti la responsabilità di farmi giustizia, oppure me la farò da me – se continuiamo a trattare la paura che le donne hanno del maschile come un problema di ogni singola donna che non ha fatto pace con la sua femminilità e la sua radice femminile, non la risolveremo mai.