VIVA NAPOLI! - LA SCRITTRICE ELIZABETH STROUT VIENE RICOVERATA D'URGENZA PER APPENDICITE IN UN GRANDE OSPEDALE PARTENOPEO. FIGURACCE INTERNAZIONALI? LAMENTELE SUI GUASTI DEL MERIDIONE? MALASANITÀ? NULLA DI TUTTO CIÒ: "A NEW YORK L'OSPEDALE SIGNIFICA ANGOSCIA; A NAPOLI RAPPRESENTA PROTEZIONE"
Leonetta Bentivoglio per “la Repubblica”
Metti che una sera a Napoli, in un limpido scorcio d' inizio d' autunno, una famosa, sensibile e raffinata scrittrice statunitense, Elizabeth Strout, artefice di storie come "Olive Kitteridge" e "I ragazzi Burgess", e rivelata al mondo dal Premio Pulitzer nel 2009, sia aggredita da un malore fisico violento. E debba subire un' operazione d' urgenza per appendicite in un grande ospedale partenopeo, il Cardarelli. Traumi? Sconvolgimenti? Figuracce internazionali? Lamentele sui guasti del Meridione? Ritardi nei soccorsi?
Malasanità? Nulla di tutto ciò: l' affascinante Elizabeth, ora in convalescenza a Napoli, non smette di commuoversi per la "beltà" dell' esperienza e di ringraziare. Per una volta evviva l'Italia. La Strout era giunta a Napoli per ritirare a Capri il Premio Malaparte grazie al suo romanzo Mi chiamo Lucy Barton, edito in Italia da Einaudi, che guarda caso si svolge dentro un ospedale (di Manhattan).
L'avrebbe dovuta festeggiare pochi giorni fa sull' isola un gruppo di scrittori, guidato dal presidente della giuria Raffaele la Capria. Ma il premio, a causa dell' incidente, l' ha incoronata solo "in absentia": «È la cosa che più mi turba e mi dispiace», spiega lei. «Temo di aver rovinato l' evento e mi sento in colpa con tutti quelli che ci hanno lavorato».
Signora Strout quanto è stato forte il suo senso di sradicamento e paura?
«Mi sono sentita sconvolta e sottosopra. Ogni minuto è stato surreale. Ma adesso sono grata a quest' esperienza: se non l' avessi vissuta non avrei visto tanti incredibili sprazzi di umanità e bellezza in un luogo e in una circostanza così particolari».
In che cosa si è manifestata tanta umanità?
«Nel calore, nella partecipazione e nelle attenzioni che ho ricevuto. Alcuni medici sono venuti a dirmi che amano il mio lavoro e mi hanno chiesto di autografare per loro un mio libro. Un infermiere simpaticissimo mi ha portata a fare degli esami e ha riso come un matto insieme a me quando gli ho raccontato che anche Lucy Barton, il personaggio creato nell' ultimo romanzo, era stata in ospedale per un' appendicite».
Può riassumere l'accaduto?
«Già durante il viaggio verso l' Italia non stavo bene. La sera a Napoli, mio marito ed io stavamo cenando con Gabriella Buontempo, curatrice del Premio Malaparte, e con lo scrittore Andrea Kerbaker. A tavola il mio mal di stomaco è peggiorato al punto che mi sono alzata, e una volta in camera il dolore era orribile. Deliravo per la sofferenza, è stato chiamato un dottore e ha voluto che andassi in ospedale».
Cosa ricorda del tragitto?
«Quasi nulla. Ero in taxi con mio marito, Andrea e Gabriella, e rammento solo un percorso lungo e pieno di buche. Al pronto soccorso c' era un mucchio di gente, eppure qualcuno mi ha trasferito direttamente dal taxi sopra una barella. Poi hanno preso a farmi esami e mi hanno dato un antidolorifico. Andrea, che traduceva per me le parole dei medici, mi ha riferito che avevo un'appendicite e che si sperava di poter evitare un intervento dandomi delle medicine. Ero terribilmente confusa e ho pensato che sarei morta.
Non avevo paura, forse perché il dolore era insopportabile. O forse ero molto pronta, data la mia età (in verità la Strout ha solo sessant' anni, ndr). La mattina dopo mi hanno detto che urgeva un intervento chirurgico e di lì a un' ora stavo in sala operatoria, dove sono entrata piangendo e sussurrando goodbye a mio marito. Mi sono fatta anestetizzare con rassegnazione disperando di rivedere i miei cari».
Riesce a descrivere il momento dell' anestesia?
«Sentivo che qualcosa mi tirava all' ingiù in un fiume scuro e che sbattevo rimbalzando sulle rocce. Poi l' acqua si è schiarita e si è trasformata in un oceano. Ogni tanto un pesce stupendo mi nuotava accanto e mi faceva ricordare quant' è bello il mondo».
Parli del suo risveglio.
«C'erano dottori adorabili e gentili attorno a me, e mi hanno portata in una stanza dove mio marito avrebbe potuto restare. Dalla finestra vedevo le cime di tre alberi. Non ho dormito affatto ma ero pacificata, pur soffrendo ancora nel corpo.
Gabriella Buontempo da Novella
Sono stata trattata benissimo da medici e infermieri. Il giorno dopo, cercando di alzarmi, sono caduta e ho visto non le stelle, ma un tremendo raggio di luce. Mi sono spaventata, ho urlato e i dottori sono accorsi subito. Mi hanno sottoposto ad altri esami per il cervello ma non c' era niente: sono a posto».
Se la sente di fare un paragone tra la sanità americana e quella napoletana?
«Negli Usa, almeno a New York, le persone non sono come a Napoli. In un ospedale newyorchese c'è un sacco di gente ovunque, i corridoi sono affollati e gli infermieri sono stressati perché hanno troppo lavoro. Non esiste il senso di accoglienza che ho percepito qui.
Da un punto di vista sanitario, l'unica cosa che ho notato a Napoli è che non tutti gli infermieri hanno i guanti quando introducono gli aghi nelle vene. Negli Stati Uniti un'infermiera verrebbe licenziata se non li indossasse. Comunque la mia stanza era pulitissima. E sul piano umano i napoletani vincono di gran lunga sugli americani. A New York l' ospedale significa angoscia; a Napoli rappresenta protezione».
Conosceva la città?
«Solo grazie ai libri di Elena Ferrante, che amo molto. Non ero mai stata a Napoli e ovviamente in questi giorni ho visto poco. Ora sono in un albergo e sto a letto cercando di recuperare energie. Dormo molto e ogni giorno mi sento meglio. Ho sbirciato qualcosa della città durante il viaggio in taxi che mi ha portato dall' ospedale in questo hotel.
Pur stando ancora male, guardavo fuori dai finestrini per scoprire il più possibile di Napoli. L' ho trovata amabile e intrigante, coi negozietti in successione, le vie sinuose, il mare… La giornata era soleggiata, e mi è venuta in mente Lucy Barton che tornava a casa in taxi col marito pensando che il mondo era troppo soleggiato e chiaro, "spaventosamente chiaro". E ho pensato: come ho fatto a scrivere nel romanzo una frase così vera?».