vittorio pezzuto marta russo

DI SICURO C'È SOLO CHE È MORTA - UN LIBRO-INCHIESTA DI VITTORIO PEZZUTO RIAPRE IL CASO MARTA RUSSO: ''A 20 ANNI DALL'OMICIDIO E DOPO 5 GRADI DI GIUDIZIO, LA VERITÀ UFFICIALE VA SMONTATA: UN DELITTO SENZA PROVE NÉ MOVENTE IN UNO DEI PRIMI GRANDI PROCESSI MEDIATICI DEL PAESE. NEL 1997 DOPO I CASI NON RISOLTI DI ALBERICA FILO DELLA TORRE, SIMONETTA CESARONI E ALTRE, PROCURA E QUESTURA DI ROMA SONO AL PUNTO PIÙ BASSO. E COSÌ...'' - LE PISTE ALTERNATIVE

1. MARTA RUSSO, IL DELITTO DEI MISTERI DOPO VENT' ANNI FERITA ANCORA APERTA

Vincenzo Imperitura per ''Il Giorno - La Nazione - il Resto del Carlino''

 

vittorio pezzuto marta russovittorio pezzuto marta russo

Quella mattina del 9 maggio, i vialetti della Sapienza che collegano le facoltà di Giurisprudenza, Statistica e Scienze politiche, sono come sempre affollati di studenti, prof, impiegati dell' ateneo e operai delle pulizie. Tra loro ci sono anche due ragazze, entrambe studiano legge; camminano una vicina all' altra, non hanno fretta.

 

Poi un tonfo - «un colpo sordo», diranno i tanti testimoni ascoltati in quei giorni concitati del 1997 - e una delle ragazze si accascia a terra, colpita da un proiettile calibro 22 che entra dalla nuca frammentandosi e rendendo vano ogni tentativo dei medici del vicino Umberto I: Marta Russo, ventiduenne studentessa di Giurisprudenza, muore quattro giorni dopo essere stata colpita da un proiettile di piccolo calibro mentre passeggiava nel cortile della sua università.

 

Una morte assurda, un delitto eclatante ai danni di una giovane 'sconosciuta', che scuote in modo profondo l' intero mondo dell' ateneo più grande d' Europa e che diventa immediatamente oggetto di discussione e polemiche accesissime sui media, che si lanciano sulla vicenda con una copertura che ha, fino a quel momento, pochissimi precedenti.

 

Le indagini coordinate dalla procura di Roma (il fascicolo finisce in mano al sostituto Carlo Lasperanza e all' aggiunto Italo Ormanni) si muovono, inevitabilmente, a tentoni: tra piste battute e subito abbandonate e altre appena sfiorate, gli inquirenti, grazie anche a una perizia (contestatissima durante il dibattimento) che identifica come compatibile allo sparo una particella rinvenuta sul davanzale dell' aula sei del dipartimento di filosofia del diritto, stringono il cerchio.

 

scattone ferraroscattone ferraro

Vengono individuate una serie di persone che potrebbero avere visto qualcosa e, a distanza di circa un mese dallo sparo che uccise Marta, vengono fuori i nomi di Salvatore Ferraro (dottore di ricerca e assistente del professore Carcaterra) e Giovanni Scattone, assistente non retribuito del professore Romano.

 

I due, entrambi trentenni all' epoca dei fatti, vengono individuati dalla testimone Maria Chiara Lipari che racconterà agli inquirenti di averli visti nell' aula degli assistenti, ma solo diverso tempo dopo avere raccontato della presenza, in quella stessa stanza, del professore Bruno Romano (direttore dell' istituto, accusato e poi prosciolto dall' accusa di favoreggiamento), della segretaria Gabriella Alletto (che diventerà la testimone chiave del procedimento) e di Francesco Liparota, bidello della facoltà con in tasca una laura in legge e che verrà scagionato dalle accuse di favoreggiamento solo in seguito al giudizio finale dalla Cassazione.

 

Scattone e Ferraro finiscono così in carcere: dal giorno del loro arresto e per tutta la durata del processo e oltre, i due imputati si dichiareranno solo e sempre innocenti. A inchiodarli sarà la contraddittoria testimonianza della Alletto che arriverà a indicare i loro nomi (e la dinamica dello sparo e della successiva fuga) solo dopo avere subito 13 interrogatori in una manciata di giorni e solo dopo molte pressioni da parte degli inquirenti.

marta russomarta russo

 

La testimonianza della segretaria verrà tuttavia ritenuta credibile e Scattone e Ferraro, dopo cinque differenti gradi di giudizio, verranno condannati in via definitiva, rispettivamente, a 5 anni e 4 mesi (con l' accusa di omicidio colposo) e 4 anni e 2 mesi di carcere (per favoreggiamento), mentre Liparota verrà prosciolto.

 

Una sentenza in qualche modo salomonica (l' arma non fu mai ritrovata, né venne mai identificato un vero movente) che non ha affatto spento le polemiche e che anche a distanza di vent' anni torna ancora a galla, rendendo ancora più amaro il ricordo per chi, quel 9 maggio del 1997, perse la vita senza un motivo e per chi, quella morte senza senso a cui si erano detto sempre estraneo, si trova a combatterla ogni giorno.

 

 

2. IL REPORTER-DETECTIVE: «UN PASTICCIO»

Giovanni Rossi per ''Il Giorno - La Nazione - il Resto del Carlino''

 

Vittorio Pezzuto, genovese classe 1966, gioventù da scout seguita da agitata militanza radicale, è un giornalista senza steccati: dal Foglio al Riformista, da Radio Reporter (con i primi programmi per migranti), a portavoce di Renato Brunetta (all' epoca delle campagne contro i fannulloni), non è tipo da adagiarsi sul bon ton istituzionale.

 

I GENITORI DI MARTA RUSSO AL PROCESSOI GENITORI DI MARTA RUSSO AL PROCESSO

Con Applausi e sputi - Le due vite di Enzo Tortora (Sperling&Kupfer 2008, poi su Raiuno) si era calato con successo in uno dei più clamorosi casi di malagiustizia. Dieci anni dopo, rieccolo in arrampicata tra i misteri italiani. Il titolo scelto per Marta Russo, Di sicuro c' è solo che è morta (664 pagine di riflessioni e suggestioni su Amazon Book), rinvia ad altre stagioni oscure.

 

Citazione pesante.

«È l' incipit del grande Tommaso Besozzi sulla morte del bandito Salvatore Giuliano. Virato al femminile, è perfetto per descrivere l' assenza di prove reali in uno dei primi grandi processi mediatici del Paese. Smontare la verità ufficiale è la logica conseguenza».

 

Nessun alleato?

«Venti editori italiani hanno rifiutato il mio libro con scuse banali o per paura di querele. Eppure il caso di Marta Russo ha scandito gli anni Novanta e i primi anni Duemila. Infatti su Amazon, dopo solo una settimana, è tra i primi tre titoli di memorie».

 

Cinque gradi di giudizio (con doppio Appello e Cassazione) non hanno chiuso i conti?

«La condanna di Scattone e Ferraro ha offerto al Paese due colpevoli. Se si rileggono tutte le carte (15.000 pagine e 8.000 articoli), se si rimettono in fila incongruenze e pressioni, se si rivive il clima di quell' inchiesta infuocata, non esclusi i veleni accademici e le complicità dei giornali per corrività o sciatteria, emerge una cattiva coscienza trasversale che ha lavorato alla fabbrica dei mostri».

 

scattone  ferraroscattone ferraro

La sua tesi?

«Nel 1997 dopo gli omicidi non risolti di Alberica Filo Della Torre, Simonetta Cesaroni, Antonella Di Veroli, Giuseppina Nicoloso, procura e questura di Roma sono al punto più basso. La morte di Marta Russo scatena la voglia di rivincita. La procura imbocca una sola pista, piuttosto fragile, e trascura le altre. Il risultato finale - in Cassazione - è uno scheletro spolpato: manca il movente del delitto, manca l' arma, mancano le conferme dei periti chimico-balistici e dei tabulati telefonici, si sgretolano i riscontri, emergono folli pressioni sui testimoni, cade la presunta correità dei docenti».

 

Ma le condanne restano.

«Omicidio colposo in cui l' assenza di movente diventa essa stessa movente perché, come disse il procuratore d' Appello, ad armare la mano di Scattone fu il Diavolo: su, non scherziamo, dai tempi dell' Inquisizione non si sentiva roba così. Del resto pure frasi bibliche sui diari degli indagati furono rovesciate in indizi di colpevolezza».

 

Piste alternative?

 «Mai valorizzate. Da quella politica (nell' anniversario dell' omicidio Moro) a quella dell' errore di persona. Quel 9 maggio alla Sapienza c' era il brigatista Paolo Broccatelli.

E alla Sapienza studiavano due ragazze molto somiglianti a Marta, una delle quali, sotto programma protezione, aveva ricevuto in quei giorni minacce di morte. Ma la procura non si è mai smossa dalle sue convinzioni».

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