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QUANTE VOLTE DEVE MORIRE ILARIA ALPI? - CLAMOROSO: IL SUPERTESTE RITRATTA LA SUA VERSIONE CHE HA INCASTRATO IL SOMALO HASHI OMAR HASSAN, IN CELLA DA 16 ANNI: “SONO STATO PAGATO DALLE AUTORITÀ ITALIANE PER MENTIRE SULL’OMICIDIO”
1 - IL SUPERTESTE AI PM “PAGATO PER MENTIRE SULL’OMICIDIO ALPI”
Daniele Mastrogiacomo per “la Repubblica”
C’è un cittadino somalo che ha trascorso 16 anni in carcere per un crimine che non ha commesso. Si chiama Hashi Omar Hassan. Tre Corti d’appello e una sezione della Cassazione nel 2002 lo hanno riconosciuto colpevole dell’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, i giornalisti del Tg 3 della Rai assassinati a Mogadiscio il 20 marzo del 1994.
Ma la sua condanna definitiva a 26 anni si basa su due fragili prove che, con il tempo, si sono rivelate inconsistenti: un vago riconoscimento fotografico e l’accusa di un testimone, Ahmed Alì Rage, detto “Gelle”, che adesso ha ritrattato ufficialmente la sua versione sostenendo di «essere stato pagato dalle istituzioni italiane » per incastrare il suo connazionale.
Fino al giugno del 1997, Rage era uno dei tanti somali che soffriva la più spietata guerra civile di tutta l’Africa orientale. Portato in Italia assieme ad altri 16 somali che rivendicavano un risarcimento per le presunte violenze subite da parte degli italiani inquadrati nella missione Unisom, ha finito per diventare l’architrave di tutto l’impianto accusatorio del processo Alpi-Hrovatin.
L’agguato mortale ai due inviati e l’emozione suscitata avevano bisogno di un colpevole. E soprattutto di un movente che distogliesse l’attenzione sul probabile scopo di quell’attentato. Un scopo inquietante e dalle conseguenze imprevedibili per il nostro governo: eliminare due tenaci giornalisti entrati in possesso di segreti inconfessabili. Quel duplice omicidio doveva essere semplicemente il tragico epilogo di una tentata rapina.
Hashi Omar Hassan oggi gode del regime di semilibertà. Dal giugno scorso vive in una struttura nel nord Italia per l’affidamento in prova e cerca di riprendersi da un incubo che dal 1998 lo ha tenuto dietro le sbarre con l’accusa di concorso in omicidio. Ma da domani, davanti alla Corte d’appello di Perugia, può sperare di vedere finalmente riscattata la sua immagine, la sua vita e soprattutto una verità che non ha mai smesso di sostenere. Dopo una serie di rinvii, gli avvocati difensori Douglas Duale e Antonio Moriconi hanno ottenuto la revisione del processo.
Dopo la sua testimonianza, “Gelle” è sparito dalla circolazione. Non ha confermato le accuse nei diversi processi, non è stato messo a confronto, non ha colmato molte lacune del suo racconto. Nessuno lo ha mai cercato. Ufficialmente era irreperibile. Eppure, già da dieci anni tutti gli organi inquirenti conoscevano il Paese, la città, l’indirizzo dove viveva.
A Birmingham, in Inghilterra, dove si è sposato, ha fatto cinque figli, lavora alla luce del sole e percepisce uno stipendio. Solo un mese fa, dopo la desecretazione degli atti della Commissione parlamentare d’indagine, si è scoperto che il 28 febbraio del 2006 la Direzione della polizia criminale del ministero degli Interni lo aveva comunicato alla Commissione stessa.
Ascoltare il supertestimone sarebbe stato essenziale. Perché il giorno in cui Hashi venne condannato, “Gelle” chiamò un giornalista della Bbc in lingua somala a Roma e gli svelò una verità sorprendente. «Ho accusato qualcuno che non c’entra nulla con l’omicidio dei due giornalisti. Per farlo sono stato pagato dalle istituzioni italiane ». La stessa versione è stata ribadita il 18 febbraio 2015 ad una giornalista di “Chi l’ha visto?” e quattro giorni fa ai pm della Procura di Roma volati in Inghilterra per una rogatoria.
La clamorosa smentita di “Gelle” è una bomba. Può scoperchiare la pentola dove si sono addensati i tanti depistaggi di una vicenda ancora tutta da scrivere. Il supertestimone si rifiutava di accusare il suo connazionale. Lo fece solo il 10 ottobre del 1997, dopo un incontro tra i dirigenti della Digos che lo interrogavano con l’uomo che lo aveva portato in Italia assieme a 16 somali: l’ambasciatore Giuseppe Cassini, all’epoca dei fatti emissario per il governo in Somalia.
Da domani sfileranno in aula alcuni dei principali testimoni di quella tragedia. Dallo stesso ambasciatore Cassini, al giornalista Massimo Alberizzi, all’imprenditore Giancarlo Marocchino, l’uomo d’affari con molti interessi nel Paese del Corno d’Africa. In attesa di ascoltare, per la prima volta in un’aula di giustizia, la versione dell’uomo che può aprire l’armadio dei misteri sull’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin.
2 - L’AUTISTA DI ILARIA E LE DUE VERITÀ DEL DIPLOMATICO
Alberto Custodero per “la Repubblica”
«Io non darei un soldo bucato alle testimonianze di Abdi perché è un bantu: non è una persona affidabile, farebbe qualsiasi cosa per sopravvivere». Giuseppe Cassini, ex ambasciatore, il diplomatico italiano che in Somalia ha svolto i primi accertamenti sul duplice omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, lascia letteralmente sbigottiti i membri della Commissione parlamentare di inchiesta che lo hanno convocato per una audizione. Il suo interrogatorio avviene in seduta segreta giovedì 28 ottobre 2004. Ma solo nei giorni scorsi, il documento della sua deposizione è diventato pubblico dopo che la Camera ha desecretato tutte le 10 mila pagine della Commissione.
Cassini viene spedito in Somalia nella seconda metà degli anni 90 per trattare con la comunità locale la questione dei risarcimenti dei danni per le presunte torture subite da cittadini somali da parte di militari italiani. Dalla Farnesina lo incaricano, «visto che è in Somalia, di trovare chi ha ucciso i giornalisti Rai». Cassini si prodiga, chiede aiuto a un funzionario della Ue, Ahmed Washington, che gli indica un somalo, Abdessalam Shino.
Questo gli presenta Gelle, che diventerà uno dei due teste di accusa contro Hashi. Hashi, inizialmente vittima delle violenze dei militari, diventerà imputato per l’uccisione della Alpi. La deputata di Sel Elettra Deiana, in quella audizione segreta, chiese a Cassini: «Washington ha dichiarato a lei di conoscere poco Gelle. Quindi, in che modo questo Gelle diventa attendibile per lei?». Cassini: «Per la proprietà transitiva, il fatto che ci sia Shino di mezzo. Tutto qua». Deiana: «Ma è un ragionamento fantasioso». Cassini: «Non esiste altro modo».
Ma quando l’ex ambasciatore parla dell’autista di Ilaria Alpi, Abdi (che insieme a Gelle è l’altro teste di accusa contro Ashi), l’atmosfera si fa kafkiana. È stato proprio Cassini, va detto, a portare in Italia Abdi facendolo volare sullo stesso aereo di Hashi. Ed è lui ad averlo accreditato alla Digos come un testimone credibile. Ma davanti alla Commissione parlamentare, Cassini cambia atteggiamento. «Gelle — riferisce Cassini — mi racconta, “non c’era ragione per attaccare (l’auto della Alpi, ndr), ma vista la facile preda, mentre stavamo masticando del qat, si decise di derubare o rapire, essendoci un solo body guard e, come autista, un bantu (Abdi, ndr)” ». «Ma la testimonianza del bantu è diventata forte avvalorata dal suo riconoscimento», gli contesta Rosy Bindi. «Mi meraviglio — replica Cassini — perché la testimonianza di uno come Abdi è labile».
Abdi viene interrogato in procura dal pm Franco Ionta il 17 luglio 1997, ma cade in mille contraddizioni quando ricostruisce il momento dell’agguato. Dice di essere rimasto ferito alla testa e al petto mentre uno dei due del commando spara, frontalmente alla Toyota, una raffica, mandando in frantumi il parabrezza. Ma il pm Ionta lo smentisce clamorosamente, mostrandogli un filmato nel quale lui, subito dopo la strage, indossa una camicia senza alcuna macchia di sangue.