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VORREI LA PELLE NERA – SI CHIAMA “TRANSRACIALISM” ED È LA NUOVA FRONTIERA DELL'IDENTITÀ FLUIDA: PERSONE APPARTENENTI A UN’ETNIA, MA CHE HANNO AVVIATO BATTAGLIE PER IL RICONOSCIMENTO DELLA LORO NUOVA DEFINIZIONE – C’È L’AMERICANO CHE SI SENTE FILIPPINO E LA MODELLA TEDESCA DAI CAPELLI BIONDI CHE È DIVENTATA NERA E HA GONFIATO LABBRA E SENO…

Gemma Gaetani per “la Verità”

 

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Si chiama transracialism ed è la nuova frontiera dell' identità fluida: ecco a voi l'etnia fluida. Sei nato e vivi in Svezia, ma ti senti africano e vuoi che gli altri ti riconoscano come tale? Nessun problema: la tua è una «disforia di etnia». Non sei uno squinternato, sei un transracial, la versione geografica del transgender, e la società si dovrà adoperare per riconoscerti il diritto di essere legalmente ciò che ti senti.

 

Sembrano le battute di uno sketch comico, ma non lo sono, perché il transracialism sembra destinato ad affermarsi.

E se vi appare assurdo ricordate quali risultati hanno ottenuto, negli anni, le lotte per l' identità di genere: ciò che un tempo pareva impossibile, ora è realtà. Da luglio 2017 il cambio di sesso anagrafico si può ottenere anche senza essersi sottoposti all' iter chirurgico di cambio del sesso: lo ha stabilito la Corte costituzionale nella sentenza 180.

 

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Nel quarto Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, il Dsm IV del 2000, il Disturbo di genere era classificato nei disturbi mentali. Nel nuovo Dsm V del 2013, il Disturbo di genere diventa Disforia di genere, non è più un disturbo mentale, ma una caratteristica identitaria. Tenete a mente questi passaggi, perché sono gli stessi che vedremo reclamare nel caso dei transracial.

 

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I militanti che, in America, tentano di legittimare il discorso sulla transetnicità, infatti, prendono le mosse proprio dal postulato transgender: «Far prevalere l' identità autopercepita su quella effettiva è giusto perfino senza operazione». Se «l' identità sessuale percepita» vale più di quella reale, lo stesso discorso deve essere valido anche per l' etnia. Questo, almeno, sostengono i «transrazzialisti» che hanno già cominciato a battagliare pubblicamente per la cosiddetta fluidità etnica.

 

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Nel libro Trans: Race and Gender in an Age of Unsettled Identities («Trans: Etnia e Genere nell' epoca delle identità incerte»), il sociologo dell' Università della California Rogers Brubaker di fatto parifica il transracialism al transgenderismo. Il suo testo prende le mosse da un caso che in America ha fatto scalpore (perché parecchio inquietante).

 

Rachel Dolezal era un' attivista per i diritti degli afroamericani, presidente della sede della National association for the advancement of colored people di Spokane, Washington. Un marito afroamericano dal quale aveva divorziato, Rachel raccontava da anni di essere più o meno la piccola fiammiferaia del mondo afro: figlia di una donna bianca che aveva tradito suo padre con un afroamericano, il suo patrigno, bianco, la puniva, e con lei i suoi fratelli adottivi, per la pelle scura che odiava.

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militanza politica Da ciò era nato l' eroico impegno da adulta a fianco degli afroamericani. Condivideva spesso su Facebook foto di un uomo nero che indicava come suo padre e, all' ennesima volta, i genitori chiamarono i giornalisti locali, spiegarono che non esisteva nessun padre nero, che non la vedevano da anni, che erano stufi delle sue menzogne deliranti e fecero pure vedere le foto di Rachel adolescente bianca e felice.

 

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Il pubblico americano restò di stucco: Rachel venne licenziata, amici e parenti intervistati iniziarono a descriverla come una persona disturbata che, in effetti, aveva modificato anche pesantemente il suo aspetto, negli anni, pur di apparire credibile come afroamericana e, infine, ella stessa dopo qualche mese confessò che sì, era caucasica, figlia di genitori bianchi, ma si era sempre identificata come nera.

 

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La Dolezal ha poi pubblicato un' autobiografia, In full color, nella quale conia il termine di transblack e sostiene che come c' è chi nasce nel corpo sbagliato, ebbene, lei è nata nell' etnia sbagliata. Lei è una nera in corpo di bianca e intende battersi per il riconoscimento ufficiale della fluidità razziale perché, ha detto, «il concetto di identità di genere è ormai unanimemente compreso e accettato; abbiamo fatto dei progressi in tal senso, arrivando a capire che il genere non è binario, e non è neppure legato a fattori biologici, e non vedo quindi cosa ci sia di strano nell' affermare che la razza, in un certo senso, sia meno biologica dell' identità di genere».

 

Avrebbe mai lottato per il transracialism se non avesse avuto bisogno di renderlo credibile a fini personali? Probabilmente no.

Ma torniamo alla questione teorica. Occuparsi del transgenderismo significa affrontare una questione che riguarda piccole percentuali di popolazione, ma stiamo comunque parlando di un fenomeno che esiste, e pure da parecchio tempo. Piantare la grana mediatica sui transracial, invece, vuol dire inventare di sana pianta un fenomeno inesistente.

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Parlarne - amplificando parecchio la presunta equivalenza tra autodeterminazione dell' identità sessuale e autodeterminazione dell' identità razziale - vuol dire applicare lo schema della finestra di Overton: ciò che per l' opinione pubblica è prima impensabile, poi diventa radicale, poi accettabile, poi razionale, poi diffuso, poi legalizzato. Basta parlarne, parlarne, parlarne.

 

E infatti in America, guarda caso, se ne parla. Altra storia dello sparuto esercito dei transrazziali è quella di Martina Big, fotomodella tedesca di non grande successo, poi assurta a fama - temiamo per lei, peritura - per il primato del più grande impianto di protesi mammaria in Europa. Martina ha prima modificato il suo corpo, con la pelle bianca come il latte e i capelli biondi come il sole, nell' intento di diventare una sorta di iper Barbie: ha operato labbra, gambe, naso e ben 23 volte il seno.

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Non paga, un giorno, si è svegliata africana. Ha capito, dice, che la sua vera etnia non è caucasica, ma africana. Ha cominciato così a sottoporsi a sedute abbronzanti e iniezioni di melanina, ha tinto i suoi capelli biondi di nero, li ha increspati e arricciati, stimolando anche il marito ad assumere un look black friendly, e ora è una specie di iper Barbie africana con la pelle scurissima e il seno gigantesco.

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Pochi mesi fa si è sottoposta a una cerimonia di battesimo a Nyeri, in Kenya, cambiando il suo nome in Malaika Kubwa («grande angelo» in swahili). E non è finita qui: «Adesso voglio ingrandire il mio lato B e voglio trasformare ancora il mio viso aggiungendo caratteristiche facciali africane. Molte donne nere mi chiedono di dove sono, dicono che sembro cubana o africana, sono molto fiera dei miei progressi, sempre più vicina ad essere una vera donna nera», ha dichiarato.

 

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tu vuo' fa' il filippino Altro caso di transrazziale è quello di Ja Du, un uomo bianco di Tampa che però si identifica come filippino, ha cancellato il suo vero nome per assumerne uno asiatico e si sposta utilizzando un tuk-tuk, il taxi a tre ruote in uso nel sud est asiatico. «Ogni volta che ho intorno musica e cibo filippini, mi sento come se fossi nella mia pelle», dice. Ja Du è anche transessuale, sta valutando la transizione chirurgica al sesso femminile e a chi lo accusa di appropriazione culturale nei confronti dei filippini veri risponde che ognuno ha diritto di perseguire la felicità a modo suo.

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A noi viene alla mente Alberto Sordi quando si atteggiava ad «amaricano» nell' indimenticabile (e a questo punto profetico) film del 1954 Un americano a Roma. Oppure la canzone del 1956 di Renato Carosone che ironizzava su quella sorta di transracialism ante litteram degli italiani un po' beoti affascinati dal reinventarsi a stelle e strisce. In Tu vuo' fa' l' americano, Carosone ricordava il principio di realtà, «Tu vuo' fa' l' americano / Ma si' nato in Italy». In quei casi, si trattava di un innamoramento quasi innocuo, una fascinazione che intaccava l' italianità assai lievemente.

 

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Il transracialism vero e proprio, al contrario, ci va giù molto pesante, nella chirurgia plastica etnica - si chiama così - si entra con i propri connotati e se ne esce con altri. Se permettiamo che tutto diventi opinabile, che il soggettivo e il percepito sovrastino l' oggettivo e l' effettivo anche in questo campo, cosa accadrà? Andando avanti di questo passo, rischiamo che - grazie alle battaglie dei progressisti per l' ennesima «minoranza discriminata» - uno diventi libero di dirsi legalmente americano pur vivendo a Ovindoli.

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