xavier dolan juste la fin du monde

LA CANNES DEI GIUSTI - XAVIER DOLAN SPACCA IL PUBBLICO: CHI LO AMA, COME IL SOTTOSCRITTO, CHE VEDE UN GENIALE STUDIO DI SOFFERENTI RAPPORTI FAMILIARI. CHI LO ODIA, E LO TROVA UN CONCENTRATO DI NARCISISMO MANIACALE DI CHI NON È MAI CRESCIUTO. COME GLI ALTRI FILM, PERÒ

Marco Giusti per Dagospia

 

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Cannes. Ottavo giorno. Quando sulle note di “Natural Blues” di Moby (“Oh Lordy, trouble so hard”), scorrono i titoli di coda di Just la fin du monde/It’s Only the End of the World, ultimo film del giovanissimo piccolo genio Xavier Dolan, solo 27 anni, il pubblico si divide brutalmente. Chi lo ama, chi lo odia. Chi lo odia lo trova un concentrato di narcisismo maniacale di chi non è mai cresciuto (e gli altri film cosa erano?), un film su di sé e sulla sua genialità, un passo indietro.

 

Chi lo ama, e ci si è proprio tuffato dentro, e io devo dire che sono tra questi, lo vede piuttosto come un geniale studio di sofferenti rapporti tra parenti tra chi è cresciuto negli ultimi vent’anni, appunto negli anni fluidi di Moby.

 

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Uno scaricarsi tutto addosso, un melodrammone diretto in maniera totalmente innovativa e con un gruppo di attori straordinari. Ma al di là della storia, che Dolan media da una pièce del canadese Jean-Luc Lagarge scritta nel 1990, e che propone il ritorno a casa, dopo dodici anni di un piccolo genio teatrale che sa di dover morire e cerca il modo di dirlo alla madre e ai fratelli, pièce che sembra nata per ricostruire una possibile autobiografia di Dolan, credo che l’interesse del film stia altrove.

 

Perché è vero che il concentrato di narcisismo maniacale esiste, ma è vero pure che Dolan se ne serve quasi per ritorcerselo contro, in un salto mortale di autocommiserazione senza fine dove nessuno potrà essere vincitore. Né il figliol prodigo che torna a casa per avere l’amore della famiglia o le loro lacrime pensando di rivelare la sua morte, e buttarsi quindi in una fuga definitiva, né la famiglia che lo vede come chi è partito lasciandoli nella pena di una vita senza avvenire e si sente quindi perennemente abbandonata e tradita.

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Per mettere in scena questo contorto testo teatrale urlato da tutti, dove gran parte delle vicende personali dei presenti viene solo accennato o non detto o rimandato, Dolan si serve di una frammentazione totale dei dialoghi dei singoli personaggi, soprattutto nella strepitosa interpretazione di Vincent Cassel come il fratello brutale e violento Antoine e di Marion Cotillard come la moglie di Antoine, Catherine, timida col nuovo venuto, ma decisa nel fermare la follia del marito.

 

Lascia invece quasi completamente senza parole il protagonista Louis, interpretato da un attonito Gaspard Ulliel, e manda a briglia sciolta la supermamma, una Natalie Baye meravigliosa, e la sorella Martine, Léa Seydoux, il personaggio più giovane e sofferente, che sono poi i soli personaggi che si truccano in scena, che si travestono.

 

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Ma Dolan si serve anche di una messa in scena che frantuma, oltre ai dialoghi, anche le regole del teatro filmato. Solo piani ravvicinatissimi dei suoi personaggi, anche frammenti, un occhio, un orecchio, la nuca, nessun campo-controcampo, un impasto sempre presente tra i volti dei presenti, i loro abiti (disegnati dallo stesso regista), una musica, di Gabriel Yared, presentissima.

 

In questo gioco di dialoghi frantumati, di esplosioni di violenza, di maquillage eccessivo, trionfano Cassel e Cotillard, come miccia pronta a esplodere e antidoto di una situazione che vede la ricomparsa del figliol prodigo come un’occasione di regolamento dei conti per tutti. Non credo che Dolan sia così interessato a identificarsi troppo nel personaggio del commediografo gay di successo che torna a casa per definire la sua morte dando un senso alla sua vita precedente.

 

Credo che sia più interessato all’esplosione dei sentimenti e a come indirizzarli per costruire il melodramma senza usare regole convenzionali del cinema borghese attuale. Se Louis pensa di tornare alla sua giovinezza, il fratello Louis lo riporta a confrontarsi col se stesso che non ha mai davvero guardato indietro. Il lavoro di Dolan sui personaggi mi sembra più vicino a quello di un Cassavetes che a quello, ad esempio, dell’ultimo, magnifico, ma antico Polanski teatrale.

 

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Cioè un cinema che è pronto a muoversi dove si muove il dramma seguendo gli attori piuttosto che a assecondare l’idea del regista. E la violenza di Cassel sembra quasi quella dell’attore rivolta contro chi cerca di metterlo in scena. Penso che quando un film divide così non può vincere granché in un festival, ma personalmente lo candido per la migliore regia e almeno il miglior attore, Vincent Cassel. 

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