GINO CASTALDO RACCONTA QUANDO IL 4 MARZO 1994 A ROMA KURT COBAIN "PROVO’ A MORIRE E RINASCERE" – IL CANTANTE, TRAVOLTO DALLA DEPRESSIONE E DAL MALE DI VIVERE, INGOIÒ SESSANTA PILLOLE DI ROIPNOL MISTE AD ALCOL. LA MOGLIE RIUSCÌ A FARLO PORTARE AL POLICLINICO: RIMASE PER ORE IN COMA E RIUSCÌ MIRACOLOSAMENTE A SALVARSI – CASTALDO: “COBAIN SI ERA RESO CONTO DI ESSERE DIVENTATO UN MODELLO NEGATIVO. OGNI TANTO INCONTRAVA GIOVANI FAN CHE SI FACEVANO DI EROINA E GLIELO DICEVANO COME FOSSE UN MOTIVO DI COMPLICITÀ. MA LUI NON VOLEVA DIVENTARE UN’ICONA DEI TOSSICI…"
Gino Castaldo per Robinson - La Repubblica
A Roma provò a morire e rinascere, il 4 marzo del 1994, anche se fu resurrezione di poco perché appena un mese dopo cancellò brutalmente la sua bellissima faccia con un colpo di fucile. Orribile da pensare e da dire ma non esiste un modo più gentile per raccontare questa tragedia. È così che Kurt Cobain trattò la sua vita, lasciando aperte voragini di domande irrisolte.
In Italia i Nirvana c’erano arrivati già a fine febbraio, in un tour che Cobain stava subendo con notevole sofferenza, avevano dei concerti in programma che si svolsero regolarmente, a cominciare dal 21 a Modena, esattamente 24 ore dopo aver compiuto quei fatidici 27 anni che sono diventati la maledizione del rock. Il tour proseguì il 22 al Palaghiaccio di Marino e si concluse il 24 e 25 al Palatrussardi di Milano.
C’era in mezzo un giorno libero e i Nirvana accettarono di partecipare alla trasmissione Tunnel di Serena Dandini, dove lei e Antonello Fassari, del tutto ignari ovviamente che si stava facendo la storia e che quella sarebbe stata la loro ultima apparizione televisiva in assoluto, li presentano con allegria e Fassari quando Serena li annuncia lancia addirittura battute sui “drogati”, loro cantano noncuranti Serve the Servants e alla fine vengono raggiunti da Corrado Guzzanti nelle vesti di Lorenzo che prova a inseguirli e viene placcato da un paio di tecnici di studio, mentre Cobain sfila via come se con la testa fosse già in un’altra dimensione.
Fu quella la settimana italiana dei concerti dei Nirvana, resa ancora più beffarda dal fatto che in quegli stessi giorni (dal 23 al 26 febbraio) si celebrava il festival di Sanremo e mezza Italia era lì incollata al televisore a guardare la manifestazione vinta da Aleandro Baldi che, coerentemente alle strane alchimie festivaliere, si lasciò alle spalle Signor tenente di Giorgio Faletti e Strani amori di Laura Pausini.
Poi continuarono a girare per l’Europa ma il disagio di Kurt cresceva, così com’era cresciuto in tutti quegli ultimi mesi della sua vita, niente affatto placato dalla nuova favolosa casa di 800 metri quadrati acquistata nei sobborghi nobili di Seattle con vista sul lago Washington, dove erano da poco andati a vivere, né tantomeno attenuato dalla figlia Frances che pure sembrava dargli sensazioni di gioia, la droga infestava la sua vita in tutte le sue forme possibili, pillole, ansiolitici, siringhe, le dosi di eroina infilate dagli amici nei cespugli della villa perché non le trovasse nessuno altro se non Kurt, con la moglie Courtney Love che di droga ne chiedeva a sua volta, ma di nascosto, e insomma in questo stato di totale incertezza e negazione era partito, soffrendo e penando a ogni tappa, fino a chiedere una pausa, che ottenne grazie a un certificato medico che gli permise di annullare alcuni concerti e programmare una breve vacanza.
A quanto pare qualcosa dell’Italia era rimasto nel cuore di Cobain e così pensò di tornarsene a Roma, e per la precisione all’hotel Excelsior, dove arrivò il 3 marzo e gli fu assegnata la stanza numero 541. In un momento di rara spensieratezza se ne andò quel pomeriggio a fare il turista, comprò rose e regali per la moglie che non vedeva da 26 giorni, poi mandò un fattorino con tanto di ricetta a fare scorta di Roipnol.
Courtney lo raggiunse in serata con figlia e accompagnatori, che poi si ritirarono in altre stanze lasciandoli soli. Come raccontò desolata in seguito, quella sera Kurt voleva scopare, ma lei rifiutò, era troppo stanca ma quando si svegliò alle 6 del mattino trovò il marito riverso per terra, col naso sanguinante e un biglietto in mano.
Nella lunga lettera citava un medico che aveva incontrato un paio di mesi prima e che gli aveva brutalmente posto un’alternativa secca: doveva scegliere tra la vita e la morte, ovvero smettere di bucarsi o continuare, e lui come Amleto, diviso tra la vita e la morte, sceglieva la morte, ma c’erano anche tante altre considerazioni sui concerti che non aveva più voglia di fare, sulla moglie, sulla gelosia nei confronti di Billy Corgan. Courtney si rese conto che Kurt era in condizioni disperate, aveva ingoiato una quantità ingente, cinquanta, forse sessanta pillole di Roipnol, miste ad alcol, e chiamò la reception chiedendo un’ambulanza. Cobain fu ricoverato d’urgenza al Policlinico Umberto I, in coma.
I medici dissero che tutto era possibile, c’erano pochi segni di vita, ma c’erano, poi lentamente aumentarono, ci fu un parziale risveglio, ma la Cnn aveva già interrotto le trasmissioni per dire che Cobain era morto suicida, a Roma. Poco dopo arrivò Marco Cestoni, allora referente discografico italiano della Geffen, buttato giù dal letto in piena notte dai colleghi americani.
Disse a Courtney di andare a chiudersi in albergo, e che ci avrebbe pensato lui a gestire la situazione. Lei accettò, ma invece di tornare all’Excelsior andò in piazza San Pietro a pregare e comprare rosari, poi tornò al Policlinico giusto in tempo per firmare le carte necessarie per autorizzare il trasferimento di Kurt all’American Hospital e sfuggire rocambolescamente all’accerchiamento dei media che stavano arrivando in massa mentre girava la voce che Cobain fosse morto suicida.
Ecco il primo e più grande dei dubbi. Cosa era successo davvero quella notte? Le pillole erano l’ennesimo tentativo sregolato di lenire quel dolore sordido che avvelenava la sua esistenza o era un deliberato tentativo di suicidio?
ultima chitarra di kurt cobain venduta per 1,5 milioni 1
La domanda era più che lecita. Ma portava con sé altre difficili e inquietanti domande. Cosa poteva portare alle soglie dell’autoannientamento un giovane uomo di 27 anni che sembrava possedere tutto quello che una persona poteva desiderare? Faceva il lavoro che amava, era ricco, bello, aveva una piccola stupenda bimba, aveva il mondo ai suoi piedi, famoso, idolatrato, eppure viveva tragicamente la sua condizione, temeva di essere poco capito e strumentalizzato, era inaffidabile, infelice, non rispettava gli impegni, al punto che quando si faceva vedere in studio i suoi compagni di strada Dave Grohl e Krist Novoselic brindavano.
Kurt era di quelli condannati a vivere tutto al rovescio, ad alternare in continuazione ebbrezza e dolore, esaltazione e depressione, e tra i motivi di angoscia c’era anche la sgradevole sensazione di essere diventato un modello negativo, ogni tanto incontrava giovani fan che si facevano di eroina e glielo dicevano come fosse un motivo di complicità, e lui non voleva diventare un’icona dei tossici come forse inevitabilmente stava diventando, per non dire di peggio, un esempio da emulare.
Si avvicinava sempre più pericolosamente alla fine, ma Roma era destinata a essere la città di questa “prova” di morte e rinascita, sta di fatto che miracolosamente Kurt uscì dal coma, si riprese, l’8 marzo uscì dall’ospedale e dopo qualche giorno tornò a Seattle. Eppure, riprendendosi dal coma aveva ritrovato intatti i suoi fantasmi, e la sua agonia psicologica non durò tanto. Nel biglietto di addio scrisse la cosa più terribile che un padre possa dire a una figlia. Senza di me vivrai più felice, non fosse altro per insegnarci a che punto può arrivare l’infelicità di vivere.
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