LA STORIA CORRE IN DIRETTA SOCIAL - DALLA BREXIT ALL’ORRORE DI DACCA, DALL’ODIO DI DALLAS ALLA FOLLIA DI NIZZA FINO AL GOLPE IN TURCHIA: I 20 GIORNI CHE HANNO CAMBIATO LA COMUNICAZIONE - DIRETTE PERISCOPE E FACEBOOK, VIDEO, FOTOGRAFIE VIRALI. I MEDIA, AFFANNATI, INSEGUONO
Beppe Servegnini per “il Corriere della Sera”
L’uomo che odia i social ha usato i social per salvarsi? Il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, ha reagito al colpo di Stato con un appello su FaceTime, registrato con uno smartphone.
L’autocrate dai modi antichi ha scelto poi uno strumento semplice — un sms collettivo — per chiamare a raccolta la popolazione («Cari figli della nazione turca…»). Infine ha twittato: «Chiedo a tutti di andare nelle piazze e negli aeroporti. Io sarò con loro» (@trpresidency, ore 02:01). Il golpe turco sa di antico (e di farsa); ma gli strumenti sono incredibilmente nuovi.
La storia ha smesso di essere un fiume, con le sue anse, le sue rapide e le sue correnti. È diventata un torrente: difficile da prevedere e faticoso da navigare. In tre settimane è successo di tutto, dalla surreale Brexit al goffo golpe in Turchia, passando per l’orrore di Dacca, l’odio di Dallas e la follia di Nizza. Venti giorni incredibili e istruttivi, in cui abbiamo intuito la velocità di un mondo che non capiamo più.
Anche chi maneggia notizie da decenni è sbalordito: si sono avverate, tutte insieme, le fantasie sul «mondo collegato», le previsioni sui nuovi media, le teorie sugli effetti esponenziali della condivisione. È come se la comunicazione avesse raggiunto, di colpo, una massa critica; e fermarla non sia più possibile.
JIHADISTI DELL ATTENTATO A DACCA IN BANGLADESH
Perché abbiamo saputo subito le cose e le abbiamo viste subito dopo; perché abbiamo condiviso immagini, simboli e paure, litigando con chi ha più paura di noi; perché abbiamo capito di condividere tanti strumenti con i nostri nemici nell’ombra, con i militari delle caserme, con la gente nelle strade e con i ragazzi sul lungomare. Perché siamo tutti nel torrente: e non è possibile restare asciutti.
I video amatoriali non sono più l’eccezione, ma la norma. Sono l’archivio della contemporaneità. Una mano in tasca o in borsa, alla ricerca del telefono: documentare l’emergenza è ormai un riflesso condizionato. A Nizza abbiamo visto l’uomo in scooter inseguire il camion della morte, e trovarla. Gli stessi giornalisti, presenti per caso sulla scena, scelgono di testimoniare pubblicamente.
Il tedesco Richard Gutjahr, che riprendeva i fuochi d’artificio della festa nazionale, documenta su Facebook l’attimo in cui il terrorista irrompe nell’area pedonale. Damien Allemand, di Nice Matin, ha portato per primo sul blog collettivo Medium il racconto del camion che falciava la folla. I social dimostrano la loro importanza nei momenti di panico. Forniscono soluzioni, simboli e informazioni.
A Nizza una famiglia aveva perso il figlio di otto mesi, e l’ha ritrovato grazie a Facebook. A Istanbul abbiamo visto un uomo a torso nudo affrontare un carro armato. A Baton Rouge, in Louisiana, abbiamo ammirato una donna, sola e composta, la gonna grigia al vento, sfidare gli agenti in assetto anti-sommossa.
Lo scontro tra polizia e afroamericani, culminato nei morti di Dallas, è partito da un filmato postato da una ragazza mentre un poliziotto spara al fidanzato. Dirette Periscope e Facebook, video ubiqui, fotografie virali. La velocità di condivisione di immagini, suoni e pareri è vertiginosa: i media, affannati, inseguono.
Certi dibattiti televisivi sembrano una riunione di naufraghi sulla spiaggia dopo la tempesta: solo il trauma subìto giustifica la pochezza della discussione. Noi giornalisti sapremo trovare un ruolo? A Londra abbiamo sbagliato il risultato del referendum, il successore di David Cameron, il futuro di Boris Johnson. A Dacca non abbiamo saputo spiegare la ferocia sadica. In America non abbiamo previsto Trump. In Turchia fatichiamo a capire Erdogan. Il torrente corre a valle: ma dove va?