VERDONE E L'ITALIA DEI CAZZARI - DA ''BOROTALCO'' E’INIZIATA LA MIA CARRIERA, NON RIUSCIVANO A CHIAMARMI AUTORE” - ALLA FESTA DI ROMA LA VERSIONE RESTAURATA DEL FILM USCITO 35 ANNI FA: "MANUEL FANTONI ERA PENSATO PER GASSMAN MA INFANTI FU GIGANTESCO. NOI ITALIANI SIAMO COSI'. DEI CAZZARI..." – LA PRIMA VOLTA DI MOANA, I RACCONTI DI MARIO BREGA E LUCIO DALLA CHE SI INCAZZO'... - VIDEO
Malcom Pagani per www.vanityfair.it
1982, Roma, interno giorno: «Sergio Leone se ne era andato, i produttori erano spariti, mia moglie, preoccupato, mi chiedeva se avevo intenzione di riprendere gli studi. Erano tutti convinti che fossi spremuto e che nei primi due film, Un sacco bello e Bianco rosso e Verdone avessi dato tutto quello che potevo dare. “E che ci mette nel suo terzo lavoro? Che si inventa? Sempre gli stessi personaggi?”». Alle viste ancora non si scorgeva un cargo battente bandiera liberiana e per la carriera di Carlo Verdone qualcuno preconizzava un rapido naufragio.
Invece, venne Borotalco: «Sapevo che mi stavo giocando tutto e che non avrei potuto sbagliare». Non sbagliò: «E con quel film, di fatto, è iniziata la mia carriera». Tra poco meno di tre settimane, Carlo Verdone compirà 67 anni. Da 40 accompagna i nostri tic e le nostre miserie con la santa pozione dell’ironia. Non è cambiato mentre tutto intorno, ineluttabilmente, si è trasformata ogni cosa.
Al tavolo di un bar di Monteverde, a due passi da dove nella giovinezza frequentava i cineforum della Capitale, osserva sorridendo i ragazzini che passando in motorino allungano le vocali e rischiano l’incidente per urlargli quello che ti aspetti che gridino a una maschera amata: «Grande Carlo, sei troppo forte!». Si ferma per le foto. Paziente. Paterno. Verdone – che prima ancora che un autore è un medico mancato – ammannisce consigli salutisti: «Ma sta bene? La vedo sbattuto, ha provato con il potassio?» e riflette sulla salute e sull’attualità del film di culto che lo tenne in piedi e gli cambiò l’orizzonte proprio a 35 anni dall’uscita.
Oggi Borotalco è stato presentato alla Festa di Roma in versione restaurata. Fu davvero un successo inatteso? Era davvero così precaria all’epoca la sua situazione?
«Bianco Rosso e Verdone non era stato capito fino in fondo e i produttori avevano cominciato a girare al largo. Il mio destino in fondo è sempre stato questo: alcuni film che considero importanti per la mia carriera sono stati capiti solo con il passare del tempo. Quando uscì Bianco, Rosso e Verdone il pubblico disse “ma era meglio Un sacco bello”. Quando in sala arrivò Compagni di scuola, sulla mia segreteria, dagli amici, ricevevo solo messaggi di tenore funerario: “Carlo, io non ti riconosco più, ma sei depresso?” “Carlo ma tu ci sei poco, hai dato tutta la parte comica agli altri attori!” “Carlo ma stai bene? Sei triste…” Oggi è tra i film più amati».
La comprensione tardiva cosa racconta?
«È il segreto della mia longevità. Ho intercettato un pubblico trasversale, con le età e le inclinazioni più diverse. Ed è stato un bene che questi film siano stati compresi strada facendo perché paradossalmente mi hanno ringiovanito. Hanno fatto diventare degli evergreen dei film con una poetica che all’epoca neanche la critica riusciva a capire. Non riuscivano a dire “Verdone è un autore”».
In Compagni di scuola c’erano 18 attori. Molta amarezza generazionale all’interno di un bilancio ilare ma severo.
«È stata una lotta far comprendere al pubblico che stavo cambiando, ma è stata la mia fortuna e non me ne importa niente che non mi abbiano capito all’epoca. L’importante è che mi capiscano oggi. Il mio lavoro è stato impostato sempre sullo sterzare all’improvviso, sul cambiare direzione. Non ho mai dato al pubblico la stessa cosa. Sono passato dall’Alberichino, dove esordii davanti a un solo spettatore, un signore di nome Franco Cordelli per mia fortuna, ai vicoli di Roma di Un sacco bello fino alla Cornovaglia di Maledetto il giorno che t’ho incontrato; Dalla coatteria ostentata di Troppo Forte a un film raffinato come Al lupo al lupo. Ho sempre fatto quello che sentivo di dover fare e se ho vinto è stato perché non ho avuto paura di essere sincero».
In Borotalco brilla una Roma scomparsa alla vista.
«La Roma che ho mostrato nei miei film non si vede più. Non è più fotografabile e non è più importante o rilevante dal punto di vista dell’immagine. Oggi quella Roma lì giace senza reagire. La città è invasa dal degrado, dalle macchine, dall’isteria. Ha perso quell’anima che aveva prima».
È vero che Borotalco avrebbe dovuto dirigerlo Dino Risi?
«Ma quando mai? Quando incontrai Cecchi Gori, il produttore, vidi un contratto già pronto. E si trattava di un film di e con Carlo Verdone. Su Borotalco lavorai un anno intero. Cecchi Gori mi chiese chi volessi come sceneggiatore. Avevo incontrato un giovane che in fase di scrittura se la cavava piuttosto bene, Enrico Oldoini.
E con lui preparai il copione più lungo, in termini di tempo speso, di tutta la mia parabola. Borotalco era un bivio. O diventava il film della mia consacrazione o lo stop definitivo ai miei sogni. Per un anno non facemmo altro che scrivere e buttare soggetti. Quando arrivammo alla versione finale di Borotalco, Cecchi Gori lo trovò bellissimo. E partimmo».
Perché quel titolo?
«Volevo un titolo che esprimesse leggerezza, che fosse lieve come un fumetto. E mi venne in mente Borotalco, che mi sembrava forte e strano ma che al tempo stesso dava l’idea della semplicità della storia. Anche se poi il film era estremamente complesso, una commedia degli equivoci piena di trovate. L’ho rivisto poche settimane fa a San Pietroburgo, con i sottotitoli in russo e dalle risate in sala ho capito che non ha perso nulla delle freschezza originaria».
I precari, i mitomani, gli amori impossibili. È ancora un film attuale?
«Ha delle tematiche ataviche ed è un film molto colorato. Un quadro con i colori di quegli anni».
Spicca la musica di Lucio Dalla.
«Sui manifesti, per volere della Cineriz di Angelo Rizzoli, Il nome di Dalla era più grande del mio. Sembrava un film di Lucio Dalla, con me ed Eleonora Giorgi come sparring partner. Lucio si incazzò. Lo invitai a Roma a vedere il film e lui non venne. Disse: “Magari lo vedo a Bologna, ma ti avverto che se non è di mio gradimento io qualcosa faccio perché non posso stare con le mani in mano”.
Il film usci in contemporanea a Roma e a Bologna e io quella sera ero molto nervoso. Per l’esito in termini di incassi – mi giocavo l’osso del collo e per la querelle con Dalla. Lucio entrò al cinema Medica, non trovò posto e allora si incuriosì e si mise a sedere per terra. Poi mi telefonò e me lo raccontò: “Fratellino, hai fatto un grande film e mi hai fatto anche un grande omaggio”».
Nel film, oltre a lei e a Eleonora Giorgi, brillano anche il mitomane Angelo Infanti e un grande Mario Brega.
«Angelo Infanti, gigantesco, diede al personaggio di Manuel Fantoni uno spessore, una cialtroneria, una simpatia e una mitomania riconoscibilissima. Eravamo e siamo così così noi italiani: cazzari, raccontatori di balle, bugiardi patologici. Angelo poi aveva una grande presenza scenica, era un bell’uomo. Ma tutti erano azzeccati i personaggi, anche Mario Brega. C’era un equilibrio miracoloso in Borotalco».
Infanti raccontò a Marco Giusti che Manuel Fantoni era stato scritto per essere interpretato da Gassman
«È vero. Oldoini che premeva per Gassman. “Dobbiamo prendere un grande affabulatore, un grande raccontatore di cazzate” diceva. Ma proprio quando stavamo andando da Gassman per proporglielo pensai “Ma chi può fare questo personaggio meglio di Infanti?” Cambiammo strada e andammo da lui. Non so come sarebbe stato con Gassman, ma Infanti fu perfetto».
In un piccolo ruolo c’è anche Moana Pozzi.
«Era la sua prima apparizione cinematografica»
Come la trovò?
«Andai a cercare la casa dove nel film viveva la Giorgi. Non volevamo ricostruirla a teatro. Lo scenografo mi portò a Trastevere, in via Saffi, in un appartamento in cui abitava una ragazza che ci avrebbe affittato la stanza. La vidi e pensai che era un po’ piccola. Allora lei disse “ho una stanza più grande di là ma c’è dentro una mia amica che sta dormendo, è
arrivata da Genova”.
“Non puoi svegliarla?” chiesi. E lei bussò. “Scusa Moana, devo far vedere la casa a un regista, c’è la produzione”….così entrammo, lei spalancò le finestre e c’era questa ragazza sul letto coperta da un lenzuolo che mi colpì subito. La stanza andava bene, ma mentre stavamo uscendo mi girai e domandai a questa ragazza: “Scusa ma tu fai cinema?” Mi rispose “sono appena arrivata a Roma mi sto ambientando…” Mi feci lasciare il numero di telefono. Il direttore di produzione mi chiese cosa volessi farle fare. “Guarda che quella ragazza, a casa di Fantoni, secondo me non ci sta male”. Il direttore si stupì: “ma guarda che nel copione a casa di Infanti non c’è nessuno”, “e noi ce la mettiamo. C’è pure la piscina!”. Rimasero tutti un po’ perplessi, ma alla fine li convinsi».
La rivide mai dopo averla incontrata sul set?
«La vidi prima. Una sera andai a cena da Massimo Troisi. Abitava sulla Cassia. Mi aprì la porta, mi fece sedere nel salottino e con chi stava? Con Moana Pozzi! “ma io e te abbiamo appuntamento domani!” le dissi. Così vidi Moana il giorno dopo e le dissi: “Ma per te sarebbe un problema fare la scena nuda nella piscina?” “E che problema c’è?” mi rispose. Capii subito che era una ragazza di ampie vedute e che mostrarsi nuda, per lei, non era un problema».
E di Mario Brega cosa possiamo dire?
«La scena di Via Veneto in cui Brega racconta di aver messo al tappeto in modo brutale i ceffi che insidiano sua figlia è un racconto di Mario Brega stesso che poi ho risceneggiato a modo mio. Gli dissi che l’avrei usato e lui mi disse: “fallo, me piasce che racconti a’vita mia”.
Era un uomo difficile e lunatico, Brega. Poteva essere generosissimo e molto aggressivo. Non sapevi se la mattina si sarebbe presentato incazzato o se ti avrebbe portato dieci mozzarelle. In scena era straordinario, e nei miei film reggeva. Non è più ricordato per il Buono il Brutto e il Cattivo o per Un pugno di Dollari, ma per le avventure che abbiamo affrontato insieme. Pace all’anima sua».
MARIO BREGA - COME SO STE OLIVE_ SO GRECHEverdone giorgiIL RICORDO DI MARIO BREGA DI CARLO VERDONE