TE LO DO IO IL DAVID! - IO, MICHELE ANSELMI, GIURATO DI UNA GIURIA CHE IL PRODUTTORE PROCACCI CONSIDERA IPERTROFICA, INATTENDIBILE, INCOMPETENTE (1.751 VOTANTI!) - NON È DETTO CHE LA SFIDA FINALE, ALLA VOCE MIGLIOR FILM, SI GIOCHI TRA GIORDANA, MORETTI E SORRENTINO. POTREBBE SCOMPAGINARE TUTTO, IN EXTREMIS, IL “PICCOLO” FILM DA 250 MILA EURO DEI FRATELLI TAVIANI, “CESARE DEVE MORIRE”…

Michele Anselmi per Dagospia

Confesso: sono uno dei 1.751 giurati del David di Donatello, anche se quest'anno si sono espressi solo in 1.120. Siccome non ho nulla da nascondere, così ho votato, e mi limito alle categorie principali per non annoiare chi legge. Miglior film: "Romanzo di una strage". Migliore regista: Paolo Sorrentino per "This Must Be the Place". Migliore regista esordiente: Francesco Bruni per "Scialla!". Migliore sceneggiatura: Giordana, Rulli e Petraglia per "Romanzo di una strage".

Migliore attrice protagonista: Isabella Ragonese per "Il primo incarico". Migliore attore protagonista: Valerio Mastandrea per "Romanzo di una strage". Migliore attrice non protagonista: Barbora Bobulova per "Scialla!". Migliore attore non protagonista: Pierfrancesco Favino per "Romanzo di una strage".

Ci ho preso? A scorrere le cinquine diffuse ieri alla Rai dal venerabile patron Gian Luigi Rondi, in buona misura sì. Ci sono tutti, quei nomi, con l'eccezione di Isabella Ragonese, che continua a ritenere la più brava attrice italiana, ma forse mi sbaglio.

Sapremo il 4 maggio, nel corso della solita diretta tv presentata dal solito Tullio Solenghi, un autentico "camomilla-show", chi avrà vinto nelle diverse categorie, e non è detto che la sfida finale, alla voce miglior film, la più importante, si giochi tra "Romanzo di una strage" di Giordana, "Habemus Papam" di Moretti e "This Must Be the Place" di Sorrentino, forti rispettivamente di 16, 15 e 14 candidature. Potrebbe scompaginare tutto, in extremis, il "piccolo" film da 250 mila euro dei fratelli Taviani, "Cesare deve morire"; mentre "Terraferma", già inutilmente designato per l'Oscar dopo un ridicolo premio veneziano di consolazione, poteva benissimo restare fuori dalla cinquina.

In attesa che gli esclusi si lamentino, dal produttore Pietro Valsecchi per l'assenza di "I soliti idioti" al regista Pupi Avati per quella di "Il cuore grande delle ragazze", ci si può chiedere se la monumentale e pletorica giuria dei David sia indenne dall'italianissima pratica di lobbying. Difficile rispondere.

Quando votavano in 400, sul modello del Premio Strega, anche 50 suffragi, racimolati per telefono, potevano orientare l'esito finale del palmarès. Votando in 1.120 parrebbe più difficile l'inguacchio. Ma certo continua ad esserci maretta intorno sulla composizione del consesso, da alcuni del ramo, tra cui il produttore Domenico Procacci, considerato ipertrofico, inattendibile, incompetente.

Il baldo titolare della Fandango dall'anno scorso esige una vera Accademia del cinema italiano, «con diritto di voto solo a chi abbia avuto in passato almeno una candidatura». Non avendone mai ricevuta una, in quanto cine-cronista, il sottoscritto è pronto a dimettersi anche oggi nel caso prevalesse l'idea di azzerare tutto. Del resto sono in buona compagnia: a sfogliare il corposo elenco, trovo colleghi autorevoli come Fabio Ferzetti, Paolo Mereghetti, Piera Detassis, Mario Sesti, Giorgio Gosetti, Franco Montini, Barbara Palombelli, Curzio Maltese.

Ma ho il sospetto che il problema vero stia in una certa superfetazione familiare/familista della giuria. Che negli anni, come ha raccontato Malcom Pagani sul "Fatto Quotidiano", è andata aprendosi alla presenza di figli, mogli, fratelli, suocere, nipoti, amanti, politici, ex responsabili delle pulizie del cinema Adriano, attori inconsistenti naturalmente mai candidati.

Del resto si sa: non tutti i giurati votano, alcuni vanno poco o per niente al cinema, altri si affidano al consiglio benevolo e interessato degli amici. Non sta bene, e tuttavia ha qualche ragione Rondi quando sostiene che «l'allargamento della giuria ha portato a una maggior sfaccettatura nelle nomination». Che fare, allora? Sfoltire un po': senza furore corporativo, provando a riqualificare il valore del voto.

 

 

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