1. EDOARDO LEO, LA RIVELAZIONE DI “SMETTO QUANDO VOGLIO” E “NOI E LA GIULIA”, VUOLE UNA COMMEDIA “SEMPLICE E POPOLARE”, “UN GENERE CHE LATITA E IN CUI NOI ERAVAMO MAESTRI” 2. “LA COMMEDIA DEV’ESSERE CATTIVA, SE NO FA PENA. A INTERPRETARE UNO STRONZO MI SONO DIVERTITO. È LIBERATORIO. LA GRANDE COMMEDIA ALL’ITALIANA ERA PIENA DI STRONZI”
di Malcom Pagani per “Il Fatto Quotidiano”
Edoardo Leo, 43 anni in aprile: “Mi dicono ‘sei giovanissimo, hai girato già tre film’. Li guardo e penso ‘solo in Italia può succedere ’sta cosa’. Ho iniziato a raccogliere i frutti del mio lavoro a 37 anni e frequentando i festival dedicati alle opere prime, a Seattle come a San Francisco, incontravo i miei colleghi. Esordienti come me. Tedeschi, finlandesi, olandesi. Nessuno di loro superava i 25, sembravo lo zio”.
In una mattina non più invernale, ma non ancora primaverile, Leo affronta la stagione del successo alternando battute a ragionamenti dal tavolo di un bar. Gli portano un caffè, si complimentano: “In Smetto quando voglio m’hai fatto troppo ride, stasera vado al cinema a vedè Noi e la Giulia”, “Te perdono solo perché ieri c’era la Roma, da domani nun te perdono più”. È allegro, dice, perché il suo racconto distribuito da Warner, la sua fotografia di tre disgraziati alle prese con un’impresa agrituristica al centro di una campagna dominata dai balzelli camorristici, non solo incassa molto bene, ma convince: “Mi ferma il macellaio ‘me so ammazzato dalle risate’. Mi chiama Massimo Carlotto ‘hai fatto un film intelligente’. Io voglio cercare il mio pubblico e fare una commedia semplice e popolare. Un genere che latita e in cui eravamo maestri”.
Ma in Italia si producono moltissime commedie.
Si producono moltissimi film comici, un’altra cosa, la commedia ha il dramma e il dramma nei film di Siani, di Zalone, di Aldo, Giovanni e Giacomo o di Ficarra e Picone, proprio non esiste. La commedia popolare dovrebbe tentare di rispettare il pubblico trasversalmente. Non puoi proporre un racconto elitario in cui ti metti sull’altare e dici ‘se non capite la poetica del tinello, peggio per voi’ e non puoi mettere insieme una serie di sketch e alzare le spalle se qualcuno te lo fa notare gridando ‘se non ridete, sò problemi vostri’. Scola non lo faceva. Verdone neanche. Con Un Sacco bello, il suo primo film, Carlo si espose a dei pericoli pazzeschi.
Lo vide da bambino?
Andavo al cinema, da solo, anche tre volte alla settimana. A casa non eravamo benestanti, ma mia madre lavorava all’amministrazione della Siae e da dipendente aveva diritto a un certo numero di ingressi gratuiti. Li sfruttavo tutti io. Insieme a King Kong, Un sacco bello fu tra i primi film della mia vita. Un film colossale che oggi nessun produttore ti permetterebbe di realizzare.
Perché?
Era un film comico che, a partire dalla colonna sonora, ti lasciava addosso una malinconia profonda. Il ferragosto romano, la solitudine, la mancanza di amici di uno dei protagonisti. Apre l’agendina e scorre l’elenco dei contatti: ‘Stadio Olimpico, Olimpico stadio’. Far ridere con la tristezza è da grandi comici. Verdone è tra loro. Involontariamente, in Noi e la Giulia, gli ho reso omaggio.
In che modo?
Anche Fausto, il venditore di orologi nelle tv private che interpreto nel film, un cialtrone, un moderno coatto in fuga dai debiti, è un miserabile che si sente un superuomo e non ha nessuno intorno a sé. Quando brinda ai suoi fallimenti, lo confessa anche ai suoi compagni d’avventura. ‘So’ solo come un cane’.
È anche razzista, Fausto e quando incontra un gruppo di africani si preoccupa: “Ahò, ma che abbiamo dichiarato guerra alla Nigeria?”.
Fausto è a metà tra un Fabrizio Corona di retroguardia e un imbonitore televisivo, ma più che razzista è ignorante. Ha tre ideali, prova a metterli in fila, ma il terzo non se lo ricorda: “Dio, Patria e...”. A interpretare uno stronzo mi sono divertito. È liberatorio. La grande commedia all’italiana educativa e mai didattica, di stronzi era piena.
E quella contemporanea?
Fatica a essere cattiva. Ha paura di non accontentare tutti, di turbare, di perdere pubblico. Così sceglie la prudenza. E annoia. Nei film che preferisco, se parla un fascista, il senegalese lo chiama negro, non ragazzo di colore.
Perché questo aggravio nel mostrarsi cattivi?
Gli Scola e i Monicelli avevano vissuto la guerra, visto la povertà, di peggio non potevano temere. Si confrontavano con una morale orientata dalle due grandi chiese politiche dell’epoca e con un pubblico che allora era facilmente identificabile. Gli studenti, gli operai, le casalinghe, gli impiegati. Si sedevano in sala e si immedesimavano con l’italiano medio, con la critica di costume, con loro stessi. Oggi decifrare la realtà è più complicato. È tutto disperso, frastagliato, parcellizzato come dicono quelli colti. Anche per questo ho preso cinque tipi umani diversi e li ho messi in uno spazio chiuso. Farli confrontare in campo aperto sarebbe stato più complicato.
Lei con Scola ha anche lavorato.
Me lo dissero al telefono e per poco non feci un incidente. Ettore adotta nella vita lo stesso sarcasmo che esercita nei film. Una volta, durante una pausa, si era assopito su un divano di scena. Due elettricisti, con acrobazie indicibili, provavano a sistemare un lampadario che pendeva proprio sopra la testa del maestro. Scola aprì un occhio: ‘Se ve do fastidio, annatevene’. Si divertiva a essere cattivo, giocava con la rudezza. Gli unici contemporanei che non hanno avuto paura di farlo nei loro film, negli ultimi anni, sono stati Moretti e Virzì.
Per il resto?
A volte hai l’impressione che certi film siano pensati a tavolino per una platea di deficienti. E il prezzo, a lungo andare, lo si paga. Per certi prodotti, c’è un rifiuto. Sa cosa dicono gli spettatori a me e a Claudio Amendola con cui sto viaggiando a Nord e a Sud per promuovere il film?
Cosa vi dicono?
Che i film italiani non vanno più a vederli. Non per pregiudizio. Sono andati, sono stati truffati e non ci cascano più. Se hai ricevuto una sòla, una fregatura, la seconda volta cerchi di non prenderla di nuovo. Qui si confondono i grandi incassi con i grandi successi. Con le commedie e con molti altri film. Prenda 50 sfumature di grigio. La gente esce e dice che fa schifo. Alla seconda operazione simile, il pubblico diserterà la sala. Garantito. Devi coltivarlo il pubblico.
A lei il film è piaciuto?
Il sesso al cinema mi annoia in maniera mortale. Quando vedo un uomo e una donna sparire fuori campo per trombare, mi addormento. Ora che ci penso, nei miei tre film non c’è un bacio. Una cosa da psicanalisi.
È puritano?
Neanche un po’. Penso sia un riflesso dei miei gusti. Se una cosa non mi piace vederla, inconsciamente non desidero girarla e quindi non la scrivo proprio. Un regista somiglia sempre ai film che fa. Da Massimiliano Bruno, a Kubrick. Se qualcuno volesse sapere qualcosa di me, lo sforzo è minimo. Basta guardare i miei lavori. Nel bene e nel male, io sono quella roba lì. Li scrivo, li dirigo, metto me stesso in quel che invento. Non mi sento paraculo, faccio le mie cose. Accetto le critiche. Sogno il confronto, se non lo scontro. Magari ci fosse. Magari si discutesse un po’.
Cosa racconta nei suoi film?
Non una generazione di immaturi né di eterni Peter Pan. Ma una generazione che non conosce senso di responsabilità e che vive in un luogo in cui puoi dire che farai una cosa e negare di averla detto il giorno dopo.
Nei suoi film gli attori sono spesso irriconoscibili.
Mi piace trasformarli perché credo nella cultura della performance. Per questa ragione mi ritaglio sempre un ruolo diverso e per lo stesso motivo, cerco attori che siano disposti a trasfigurarsi. E nel farlo, a divertirsi. In Noi e la Giulia, Amendola è una sintesi tra Mario Brega e Angelo Infanti. E di essere qualcosa di diverso dal solito, era contento. Per troppi anni abbiamo premiato un cinema in cui la gente stava seduta in poltrona e parlava con intensità.
Non la convince l’intensità?
Non mi convince la parodia dell’intensità. Le interpretazioni intense che sono programmatiche e mai davvero sofferte, mi fanno cagare. Quando parlano sottovoce poi, impazzisco. Vorrei avvicinarmi allo schermo e urlare: ‘Come? Non ho sentito bene’. Sa cosa ci insegnava Proietti?
Lei con Proietti ha lavorato a lungo.
Gigi aveva una regola aurea: ‘S’adda capì’. Se non capisci, significa che non funziona.
Cosa ha capito del cinema in questi anni?
Che sono più paziente e meno impulsivo di quanto non credessi. Io il cinema non volevo neanche farlo e in casa non erano esattamente entusiasti della scelta. Papà era di estrazione contadina. Nato a Sutri, era sbarcato a Roma a metà degli Anni 70 per fare il programmatore di computer. Si è sempre spaccato la schiena. Raccontava di stanze enormi, di schede perforate, di mammozzoni tecnologici simili a quelli di Odissea nello spazio. Gli elaboratori dell’epoca, raffreddati ad acqua, erano primordiali. Papà si era appassionato, ma portava a casa il peso di tante ore di lavoro e qualche preoccupazione. ‘Prima ti laurei, di questa questione della recitazione parleremo dopo’.
Lei si laureò in Lettere con il massimo dei voti.
Tesi sul Pasticciaccio di Gadda. Papà non era persuaso: ‘Se avessi fatto Economia e Commercio, forse un posto di lavoro l’avresti trovato’.
Lei lo trovò lo stesso.
Al primo provino. Con un curriculum quasi del tutto falso e costruito a tavolino. All’epoca potevi dire di aver fatto qualche cortometraggio, certo che nessuno avrebbe controllato. Pensi che il mio primo agente, un ex attore, lo trovai sulle Pagine Gialle.
Il primo impatto con il set?
C’era un vecchio attore francese, un tipo affascinante passato dall’Accademia, che sedeva nell’angolo circondato da donne. Pensai: ‘Questo è l’uomo mio’. Non possedevo la vocazione ed ero stato un adolescente introverso e molto timido. Il mestiere dell’attore mi pareva un’ottima scorciatoia per guadagnare due lire, faticare poco e rimorchiare un sacco. Non ho mai avuto il sacro fuoco dell’arte e anche oggi, più che un artista, mi considero un lavoratore dello spettacolo.
Piovvero comunque molte fiction.
Studiai da autodidatta e feci molto teatro in provincia. Stanze quadruple per risparmiare, viaggi assurdi, pasti magri, tournée massacranti. Il teatro mi ha aiutato a essere rapido. A capire che pubblico avevo davanti. Su certi palcoscenici simili a quelli frequentati da Alvaro Vitali in Roma di Fellini, dovevi svegliarti per forza. Ci sono posti in cui se non capisci in fretta dove sei capitato, se sei fortunato ti tirano un gatto morto e se lo sei di meno, a morire sei direttamente tu. Tra il teatro e le fiction, mi chiamarono anche in qualche produzione indipendente per il grande schermo. In Dentro la Città di Andrea Costantini, un buon film di genere, feci il protagonista per la prima volta.
Si è mai vergognato di qualche scelta?
Ho fatto tanta brutta televisione, di che mi posso vergognà? Direi che un certo tipo di tv è stata illuminante. Alcune fiction hanno rappresentato un’occasione clamorosa per guardarmi dentro. Una grande scuola utile a scoprire il mio gusto, a capire quello che mi piaceva, quello che non mi piaceva fare e quello che non avrei fatto mai in futuro. La verità è che mi sentivo un po’ più bravo dei ruoli che mi offrivano. Invariabilmente il poliziotto o il carabiniere. Non ne potevo più. Così con un mio amico, Marco Bonini, misi in piedi un film tutto nostro.
il cast di smetto quando voglio
Era uno strano road movie. Si intitolava “18 anni dopo”. Vinse più di 15 premi.
Io non volevo girarlo. Non ci pensavo proprio. Io e Marco cercammo un regista ovunque, anche in Inghilterra. Avevamo vinto il premio Age per il copione, ma in Italia i registi sono tutti autori, così i produttori ci dicevano: ‘La sceneggiatura è bellissima, vendetecela e poi toglietevi dalle palle’. Io e Bonini però avevamo fatto un patto. Il film non si sarebbe fatto se non ci fossimo stati tutti e due.
E lei rispettò il patto.
Non era periodo di vacche grasse e dio solo sa quanto ci sarebbero serviti quei soldi, ma un po’ per tigna, un po’ per rabbia, ci impuntammo a costo di stringere la cinghia e far morire 18 anni dopo sul fondo di un cassetto. Alla fine del percorso incontrammo Guido De Angelis, il produttore che da ragazzo, con suo fratello, aveva fondato gli Oliver Onions, il gruppo musicale che aveva fatto la colonna sonora di Più forte ragazzi e di uno dei Trinità con Bud Spencer e Terence Hill.
De Angelis la prese a pugni?
Chiese il fondo al ministero per produrre il film: ‘Se ce lo concedono, lo girì tu’. Glielo concessero. L’avventura iniziò così. Ancora lo ringrazio. E un po’ mi arrabbio.
Perché?
Quando vedo certe rivalutazioni del trash italico degli Anni 70, incazzarsi è automatico. Il trash è trash. Spacciarlo come eversione artistica è disonesto. I commilitoni alle grandi manovre o le professoresse con le giarrettiere di tanto cinema dell’epoca non sono idee geniali. Sono solo film orribili. Per scrivere un copione impiego due anni, se avessi fatto quella roba ci avrei messo due settimane. Non è la stessa cosa.
Sarà contento Marco Giusti, massimo cantore di quel cinema ribaldo.
Con Giusti infatti non sono mai d’accordo. Lui si diverte, ma nel trash io non vedo nulla di nobile. Paragonare il cinema delle docce a Lars Von Trier è un equilibrismo eccessivo. Dire che Yuppies è un capolavoro è troppo. Sia chiaro che non ce l’ho con i Vanzina, sono bravissimi mestieranti e con la farsa hanno raccontato passaggi di tempo estremamente interessanti, ma non è il mio campo d’azione.
Non farebbe un cinepanettone?
Me l’hanno offerto e ho declinato. Non per spocchia, ma perché non saprei da dove cominciare. La farsa è un genere molto preciso, ma non è il mio. Ovvio che se è fatta bene, è strepitosa anche la farsa.
Christian De Sica, attore dalle mille sfumature, sembra essersi votato soprattutto a quello.
Giudicare le carriere degli altri è sgradevole e può apparire presuntuoso. Posso dire solo che Christian è un attore fantastico e ha moltissimi registri. Quando deciderà di usarli tutti, sarà capace di eccellere in qualsiasi contesto. Il cinema italiano tende a non variare l’offerta. A non dare agli attori le occasioni giuste. A non rischiare. Dario Argento recuperò Clara Calamai in Profondo Rosso quando tutti l’avevano dimenticata. La sua interpretazione fu indimenticabile.
In “18 anni dopo” lei ha lavorato con Gabriele Ferzetti.
Pur essendo poco meno di una divinità in Francia, in Italia non lavorava. Ho parlato con la figlia Anna e mi è venuta l’idea di coinvolgerlo. Ho bussato alla sua porta, gli ho parlato, l’ho convinto ad accettare l’offerta. Mi ha dato tantissimo. Gabriele ha un carattere complicato. È l’uomo più burbero che abbia mai conosciuto. Credo che in carriera abbia mandato a fare in culo chiunque.
Anche lei?
Mi sono salvato, ma non è stato prodigo di complimenti. In conferenza stampa gli chiedono: ‘Le è piaciuto il film?’. E lui: ‘Mi è piaciuto, infatti l’ho finito’.
Ha rischiato e le è andata bene.
carlo verdone con la figlia giulia
Ci siamo dimenticati quanto fosse rischioso il cinema dei nostri padri. Non per tornare sempre a Scola, ma lei se lo ricorda C’eravamo tanto amati? Racconto storico, dramma, bassezze, critica sociale, toni surreali. Giovanna Ralli parla con Gassman, da morta, dall’alto di uno sfasciacarrozze, come se fosse viva. Chi si prende un azzardo così, oggi? Un fantasma in scena? Nessuno.
E l’azzardo dell’inflazione non la preoccupa?
Dopo “Smetto quando voglio” ha avuto tante richieste. Non ha paura di essere fagocitato e poi dimenticato in fretta per eccessiva esposizione, Quest’anno ho rifiutato molti copioni. Scelgo con parsimonia le cose da fare. Al limite mi piacerebbe essere diretto da registi che stimo come Castellitto e Virzì. Per il resto, come le dicevo, non voglio dare la sòla. Ci provo. Mi impegno. Magari passo un turno. Ma la sòla non la do. Non ce la faccio.