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QUEL FENOMENO DI “LITTLE JIMMY” - ESCE L’ALBUM POSTUMO DI JAMES SCOTT, COSTRETTO A UN’ETERNA PREPUBERTÀ DALLA SINDROME DI KALLMANN - LA VITA DA LUSTRASCARPE, IL SUCCESSO E LE CADUTE, L’AMICIZIA CON RAY CHARLES: “NEGLI ANNI QUARANTA ERO COSTRETTO A VIAGGIARE CON LA PISTOLA, PER DIFENDERMI DA QUELLI CHE MI CONSIDERAVANO UNA PREDA IDEALE PER LE LORO FANTASIE SESSUALI”
Giuseppe Videtti per “la Repubblica”
Adolescente a vita, e forse per l'eternità. Da ragazzino Jimmy Scott (1925-2014) era talmente innamorato di Billie Holiday che quando in casa cominciò a cantare con quella strana voce tutti pensarono si trattasse di una infatuazione. Niente di preoccupante. I problemi arrivarono più tardi, verso i dodici anni. James Victor Scott non cresceva come gli altri ragazzi di Cleveland, e anche la voce restava bianca, acuta, querula. Non c'erano soldi per farlo visitare da uno specialista.
Mentre gli altri ragazzi di colore raggiungevano stature rispettabili da cestisti, lui era per tutti "Little Jimmy", il bambino malcresciuto del quartiere, un freak, uno scherzo della natura. Deriso, umiliato perché diverso, tranne quando gli capitava di intonare i classici del grande songbook americano e tutti restavano a bocca aperta. Bastava girarsi dall'altra parte, non guardarlo, e lui trascinava con lo swing di Anita O'Day, inteneriva con l'inquietudine di Libby Holman, commuoveva con l'incedere spezzato e dolente di Billie Holiday.
Un timbro metallico, tormentato, capace di raggiungere zone della coscienza che il pop è incapace di esplorare. Unico. Un fenomeno. Se ne accorse il vibrafonista Lionel Hampton, che negli anni Quaranta lo volle in orchestra. Ma poi le sue sorti furono alterne; più volte riscoperto e dimenticato, più volte finito a fare il lustrascarpe negli alberghi di lusso della città natale.
Non riuscì a riscattarlo neanche Ray Charles, che all'inizio degli anni Sessanta gli produsse un disco magnifico (Falling in love is wonderful) che poi, a causa del fallimento della sua neoetichetta Tangerine, finì al macero; neanche la Atlantic: quando nel '69 fu pubblicato The Source, il mercato era in delirio per la British Invasion e i nuovi eroi del soul, Aretha Franklin in testa.
I go back home - A story about hoping and dreaming, l'album e il documentario in uscita rispettivamente il 27 gennaio e a fine anno (ma un' anteprima è prevista alla Casa del cinema di Roma il 4 febbraio), sono il tributo postumo all' artista che la sindrome di Kallmann, una rara malattia genetica che blocca la crescita ormonale durante la pubertà, ha trasformato in una delle voci più singolari della storia del jazz.
Racconta la storia dell' artista e le ultime session di un disco che ha impiegato otto anni a vedere la luce, nonostante le energie profuse nel progetto dal produttore tedesco Ralf Kemper e la collaborazione di nomi eccellenti come Joe Pesci (in due preziosissimi duetti), Joey DeFrancesco, Oscar Castro Neves, Kenny Barron, Dee Dee Bridgewater, Arturo Sandoval e James Moody.
Kemper, testardo e innamorato della voce dell'artista, scovò Scott ultraottantenne nel 2008 a Las Vegas dove viveva in semiritiro con la giovane moglie. Era un uomo malato, stanco, rassegnato, immobile su una sedia a rotelle.
Elton John, Sting e Stevie Wonder, inizialmente entusiasti del progetto, si tirarono indietro quando seppero delle pessime condizioni di salute del cantante. Sbagliarono. Kemper convinse Jimmy a rientrare in sala di registrazione e il risultato è sorprendente. Anche nei brani, come The Blues, non inclusi nell' album (ma sono il punto di forza del docufilm).
Ancora niente barba, voce da quattordicenne ma con la consapevolezza, il dolore, l'esperienza di un uomo cui la vita non ha fatto regali. «Negli anni Quaranta ero costretto a viaggiare con la pistola, per farmi pagare le serate e difendermi da quelli che mi consideravano una preda ideale per le loro fantasie sessuali», ci raccontò Scott alla fine degli anni Novanta, durante un breve tour in Italia.
«Ci fu un periodo in cui negli ambienti jazz girava voce che fossi una donna che amava travestirsi da uomo, cosa che stuzzicava moltissimo la curiosità di gangster e non solo. Ho continuato ad esistere anche dopo Lionel Hampton, ma entravo solo dalla porta di servizio dello show business. Poi conobbi Lou Reed, tramite Doc Pomus. Per me la versatilità in musica è tutto, lavorare con un artista rock fu una benedizione».
Lou lo coinvolse nel progetto Magic and loss, nel 1992, e per Jimmy fu la rinascita. David Byrne lo intervistò, David Lynch lo inserì nell' episodio 29 di Twin Peaks, Jonathan Demme lo volle nella colonna sonora di Philadelphia, David Ritz, il biografo di Ray Charles, Marvin Gaye e Aretha Franklin, ne raccontò la storia in Faith in time - The life of Jimmy Scott.
Ora anche Cleveland, che dopo la morte gli ha dedicato una strada, sa che il piccolo Jimmy Scott non è una macchietta ma un interprete capace di sedurre e commuovere, che canti Sorry seems to be the hardest word di Elton John, Nothing compares 2 U di Prince o The nearness of you di Hoagy Carmichael. «Una volta dicevano che ero gay per la mia voce, adesso per il mio pechinese», scherzava. Per chi è rimasto precocemente orfano di Lady Day, Jimmy Scott è la Billie Holiday di un nuovo sentire.