GIALLINI A CUORE APERTO: “LOREDANA PER ME È STATA TUTTO. LA MADRE DEI MIEI FIGLI, LA DONNA CON CUI SONO STATO PER 30 ANNI E CHE, DOPO ESSERSI SENTITA MALE, SE NE È ANDATA DALLA MATTINA AL POMERIGGIO SENZA CHE IO LE ABBIA POTUTO DIRE NEANCHE CIAO” - “LA SUA MORTE È UN EVENTO CHE NÉ IO NÉ I MIEI FIGLI ABBIAMO MAI METABOLIZZATO. NON NE ABBIAMO MAI PARLATO. NON SIAMO MAI ANDATI AL CIMITERO INSIEME, ANZI, IN 7 ANNI…” - “NON SOPPORTO IL PREGIUDIZIO DI CHI VUOLE INCASELLARTI A PRIORI. AI PARIOLI, COME DISSI A UN DIRIGENTE TELEVISIVO, STAREI BENISSIMO. “GIALLINI, LEI VIVREBBE BENE AL PIGNETO”. “AL PIGNETO MIO PADRE CI ANDAVA A MIGNOTTE” RISPOSI. NON ERA VERO, MA…”
Malcom Pagani per www.vanityfair.it
Soprannome: «Gli amici mi chiamano Dottor Divago. Inizio un discorso, lo apro, mi entusiasmo, non lo chiudo e poi, con la stessa frenesia, cambio argomento. Sono sempre stato curioso. Di quello che non conoscevo e di quello che, pur sembrando assurdo agli altri, mi piaceva». Nel giorno del suo compleanno numero cinquantacinque, sul volto di Marco Giallini affiorano ricordi lontanissimi. Il nome di un poliziotto: «Si chiamava Piero Ciampolini.
Ero scappato dall’asilo a quattro anni, lui mi recuperò per strada, mettendomi sul retro della sua Lambretta per riportarmi dalle suore». L’adolescenza da palombaro: «Da ragazzo mi calavo nelle marane e, aspirando l’aria da una canna, guardavo il mondo sott’acqua da una palude, tra le salamandre». I tanti mestieri: «Lo scaricatore, l’addetto alla consegna delle bibite, l’imbianchino» che – giura – ancora oggi gli fanno impugnare il pennello per dipingere in una casa di frontiera molto colorata «a qualche centinaio di metri da dove finisce il Grande Raccordo Anulare e muore il 337, l’ultimo autobus della città».
Marco Giallini ha preferito stare sempre un passo indietro. Vicino alla campagna – «L’idea di abitare in centro non mi ha mai sfiorato» – senza mai coltivare l’epica dell’emarginazione: «Ho comprato il primo paio di Levi’s a 26 anni e indossato i vestiti di mio fratello, come almeno cento milioni di persone». Mentre fuma in una casa piena di film di Petri, guanciali di Amatrice alle pareti, filari di lampadine sopra il letto, chitarre e dischi in vinile, isolata e circondata dal silenzio – «Per un pigro come me, la perfezione» –, dice di non aver trovato da subito il giro giusto, ma di aver capito «abbastanza presto che della mia vita avrei fatto qualcosa di utile».
L’ultimo dei quaranta film interpretati nell’ultimo ventennio, Io sono Tempesta di Daniele Luchetti (in sala dal 12 aprile, produce Rai Cinema, insieme a Giallini, sullo schermo, anche Elio Germano ed Eleonora Danco), «è uno di quelli che sono stato più onorato di girare. È la storia di Numa, un losco e ricchissimo figuro che, condannato per affari illeciti, è affidato ai servizi sociali e costretto a frequentare un gruppo di poveri che tenterà di corrompere moralmente fino all’ultimo. Un personaggio scorretto che sarebbe piaciuto a Risi o a Scola».
Lei ha fatto in tempo a conoscere il secondo.
«Scola lo incontravo al Tufello o a Cinecittà mentre fumava in un seminterrato e scriveva. Mi diceva sempre la stessa cosa: “A Giallì, sei nato nell’epoca sbagliata, peccato che non ti ho incontrato prima, tu me ricordi quella robba lì, la commedia all’italiana”. Di Dino ho conosciuto il figlio, Marco. Una delle persone a cui devo di più. Nel 1997 recitavo per Angelo Orlando, a teatro, in Casamatta vendesi. Valerio Mastandrea chiese a Marco di venirci a vedere e lui lo fece. Del resto si occupò Carletto».
Chi è Carletto?
«La maschera del locale in cui recitavo, in vicolo del Fico. L’allora fidanzata di Marco, Francesca D’Aloja, l’aveva quasi convinto ad andarsene in pizzeria. Carletto li riprese per il bavero. Aprì la porta, li puntò e disse: “Allora entrate o no?”».
Risi le offrì un ruolo nell’Ultimo Capodanno tratto da Fango di Ammaniti.
«La mia carriera è partita tardi. Anche per colpa mia. Di provini, nella mia vita, ne avrò sostenuti cinque in tutto. Non andavo, mi dava fastidio bussare alle porte, non volevo vedere sul volto degli altri l’imbarazzo. Non volevo pensassero: “Arieccolo”».
In Io sono Tempesta lei è il ricco che incontra i poveri.
«E lei vorrebbe farmi dire che io ero povero. Ma io povero non sono mai stato. Poveri sono quelli che non mangiano. Noi a casa abbiamo mangiato pure troppo. Mia madre con tre pezzi di carne cucinava spezzatini che duravano una settimana. Metteva patate a chili, il sapore un po’ ci perdeva. Ma a digiuno non restavamo, anzi» .
Suo padre?
«Mio padre aveva la terza elementare e lavorava come un matto. Smontava dalla fornace alle cinque di mattina, saliva in moto e in canottiera, le vene spesse come i tubi, andava a lavorare i campi dei ricchi a mezzadria. L’unico lusso di papà erano tre pacchetti di Marlboro al giorno. Morbide. Se gli prendevi le dure ti mandava a Milano per ricomprarle. Di certo non era tipo da vacanze.
Aveva visto il mare in Francia, durante la guerra, e gli era bastato per sempre. È morto di fatica papà, ma non si è mai lamentato e mi ha insegnato a non lagnarmi e a non essere retorico. Posso parlarle di mio zio che tirava il collo alle galline e ai polli, di certi amici che hanno fatto una brutta fine come di Benedetto Croce, Silone, Beckett, George Best o del funerale di Stalin. Ho tante cose dentro. E al ricatto del riscatto non ho mai creduto».
E a cosa ha creduto?
marco giallini romanzo criminale
«Alla dignità. Quando hai dignità puoi fare di tutto senza vergognarti, anche chiedere i soldi in prestito. I miei avevano una dignità enorme. Erano dei fricchettoni fuori tempo e fuori contesto. Andavano alla ricerca della libertà senza strumenti, ma a testa alta. Avevano coraggio. A mamma dicevano: “Guarda che Antonio ti tradisce”. Lei se ne fotteva. Usciva con il suo tacco rosso e la gonna sopra il ginocchio, attraversava la borgata fieramente e ad abbassare gli occhi erano sempre gli altri».
Il primo provino?
«Al Teatro Argentina con Arnoldo Foà. Arrivai con una Thunderbolt pagata con le cambiali, parcheggiai, entrai e vedendolo seduto in terza fila, con la pipa in bocca e il giornale sulle ginocchia, mi sentii avvampare di inadeguatezza e di vergogna. Volevo sparire, a qualsiasi costo. Mi sarei buttato a pesce sulla folla, a corpo morto, come Iggy Pop. Foà disse: “Prego, è venuto per la parte?”, e io risposi mentendo: “Sì, ma non l’ho imparata a memoria”».
marco giallini posti in piedi in paradiso
Non era vero?
«Volevo soltanto fuggire. Foà mi guardò con disapprovazione: “È una grave mancanza di rispetto”, disse. Io tornai a casa e per miracolo tre giorni dopo mi ritelefonarono. “Devi tornare”. Mi prese un colpo. L’Argentina, un tempio, era deserto. Rimbombavano anche i sospiri. Sulle scale incontrai le inservienti delle pulizie, con i loro grembiuli blu: “Stia attento, si scivola”. Salii sul palco. Recitai l’Adelchi con tutta la forza che avevo, dall’inizio alla fine: “O Re de’ re / tradito da un tuo fedel / dagli altri abbandonato / vengo alla pace tua: l’anima stanca accogli”. Foà si alzò di scatto: “Lei è libero nei prossimi sei mesi?”».
Che lavoro faceva allora?
marco giallini odore della notte
«L’imbianchino, mi piaceva l’odore della vernice. Mi piace anche adesso. Faccio tutto da solo. Come mio padre che costruiva gabbie per gli animali più perfette di quelle che avresti potuto acquistare in un negozio. Si comprò un pezzo di terra sulla via Salaria. Rate per un secolo, le sto ancora pagando. Tirò su la casa con le sue mani, mattone dopo mattone. Dormivamo con l’intonaco ancora fresco. Papà era ironico e guascone. Se in trattoria arrivava una porzione modesta ci scherzava su: “Adesso sento se sono cotti, li assaggio, poi ti dico come sono quando arriva il resto”. Al momento del conto chiamava il cameriere e rincarava la dose: “Maschio, ma che abbiamo rotto qualcosa?”. Ma nun è stupenda ’sta battuta? Dimme la verità? Oddio che bello che era papà».
Qual era il suo piano b?
marco giallini monica bellucci l ultimo capodanno
«Ma quale piano b? Io non avevo nessun piano, né l’a, né il b. Sul muretto di via Nomentana, dove ci riunivamo con gli amici, avevo appena conosciuto Loredana, erano i tempi in cui ero appena tornato dal militare: caserma Valfrè, in corso Cento Cannoni, ad Alessandria. Un periodo duro in cui combinai qualche casino e mi beccai vari giorni di consegna. Tornato, volevo solo farmi ricrescere i capelli e innamorarmi. Andavo in discoteca al Veleno e a mettere i dischi, con il giubbottone in pelle, c’era Jovanotti. Loredana allora usciva con Marco. Un belloccio. Quanto ho dovuto corteggiarla, Loredana».
Chi è stata per lei?
marco giallini mastandrea l odore della notte
«Tutto. La madre dei miei figli, la donna con cui sono stato per trent’anni e che, dopo essersi sentita male, se ne è andata dalla mattina al pomeriggio senza che io le abbia potuto dire neanche ciao».
Neanche ciao?
«I suoi genitori mi hanno trattato come un parente stretto e io non ho avuto nemmeno il tempo di salutarla. La sua morte è un evento che né io né i miei figli abbiamo mai metabolizzato. Non ne abbiamo mai parlato. Non siamo mai andati al cimitero insieme, anzi, in 7 anni, al cimitero sono andato due volte in tutto. Le fotografie le ho a casa, ma non le guardo, non è roba per me perché lei è ovunque, nei ricordi, nelle stanze, nei viaggi a Barcellona che non farò più. Ho un fratello che ha qualche problema. Un altro che non c’è più. La vita mi ha colpito, ma raccontarlo mi sembra inutile».
Perché?
«Perché, raccontandole, sembra che certe cose siano successe solo a me. E non è vero. Lo stesso vale per l’infanzia. A parte alcune cose brutte, è stata bellissima. Il pane che non si buttava e si ricucinava in mille altri modi? Intorno a noi lo facevano tutti. I miei non ce l’hanno fatto mai pesare, anche perché io pensavo che la vita fosse solo quella. Non avere e non possedere nulla».
Adesso a cosa pensa?
«Io non penso. Da anni, per non pensare, non mi faccio più neanche le canne».
Il commissario che interpreta in tv, Rocco Schiavone, le fuma.
«Ma quella è finzione. Io le sto parlando della vita vera. Perché se fumo penso e se penso, poi penso a mia moglie che non c’è più o al futuro dei miei figli».
Da adulto ha dovuto imparare a essere padre e madre.
«Non ho avuto mai il bisogno di dare neanche una sculacciata. Basta la voce. Sa cosa diceva mio padre, che non mi ha mai sfiorato neanche con un dito? “Quando ti chiamo io, ti devi fermare come si ferma Bobby”. Un cane. Io questa storia ai miei figli non l’ho mai raccontata, ma loro l’hanno capita lo stesso. Si vede che ce l’avevano dentro».
I suoi figli accettano l’idea che lei possa avere un altro amore?
«Sono ragazzi speciali. Se arriva una ragazza non salgono al piano di sopra e mi chiedono sorridendo: “Sei solo papà?”. Poi mi fanno l’occhiolino e mi sorridono. Abbiamo una sorta di amicizia. Quando dicono che non devi essere amico dei figli sorrido. Non sono io a essere amico loro, sono loro che sono amici miei».
Che adolescente era Marco Giallini?
«Uno che si divertiva in modo semplice. Mi infilavo nei cinema di straforo a vedere Malizia di Samperi e tiravo calci a un pallone tutto il giorno contro la saracinesca del garage in cortile. Le urla di mia madre: “Me la deformi, falla finita”, mi pare di sentirla ancora. Una volta con una pallonata feci cadere l’apparecchio acustico a Peppe, il vecchietto che abitava nel palazzo di fronte. Fu un caso. Avevo 14 anni, ma non ero uno stronzo. I quattordicenni di oggi sono più stronzi ed è quasi normale. Hanno tutto, non si sono conquistati niente, che possiamo pretendere da loro?».
Lei il suo posto sul palco se l’è conquistato.
«Con Edoardo Leo, Rolando Ravello e Mastandrea dividevamo la camera in quattro durante le tournée teatrali. A dispetto della faccia che mi porto dietro, sono sempre stato molto preciso e un po’ schizzinoso. Per farmi impazzire mi mettevano i calzini sporchi sotto il cuscino. Quante gliene ho dette».
Tanti Nastri d’argento, nessun David.
«A me i David non li danno. Ovviamente mi dispisce, ma non ne faccio un dramma».
Perché?
«Evidentemente non sono di moda, ma non ambisco a esserlo».
Il cinema italiano ha abbastanza coraggio?
«Non ce l’ha no, certo che non ce l’ha. Non c’è più neanche il contesto storico, non ci sono più i partiti, non c’è più lotta, non c’è più niente. E di chi parli male? Di Berlusconi? Può farlo giusto Sorrentino, ma lui è un genio, come Servillo. Di Toni mi piace tutto. Si vede che è un uomo libero».
Lei si sente un uomo libero?
«Libero? Come fai a essere libero? Sono libero di morire o di rifiutare alcuni ruoli, come ho sempre fatto, per poi magari interpretarne di peggiori. Ora ho la tranquillità economica di poter scegliere, ma anche quando i registi non mi cagavano e dicevano che non ero rassicurante, sentivo che ce l’avrei fatta. “Con i mangiapane a tradimento che ci sono in giro”, diceva papà, “perché non dovresti farcela tu?”».
Uomini liberi ne ha conosciuti tanti?
«Libero era Enzo Jannacci, un altro genio di questo Paese. L’ho conosciuto sul set quando stava già male. Parlavamo per ore. Siamo diventati amici. “La libertà”, mi diceva, “è la cosa più bella e difficile che esista. Non essere liberi è più comodo, poi si muore, ma è un’altra storia”. Applicava il concetto a ogni ambito. A tavola beveva aranciata: “Vorrei una Fanta”. Gli portavano un’altra marca e lui la rimandava indietro: “Non è la stessa cosa, lei si prende la libertà di portarmi altro e io di non berlo”».
Come vive il suo mestiere?
«Mettendoci tutto quello che devi metterci quando reciti: devi essere cuore, cervello, anima, saliva, merda, sputi. Non sai mai se arriverai in cima, ma è arrivarci in un certo modo che fa la differenza. Se fai la pubblicità ti riconoscono tutti, ma magari dicono: “Quello è un idiota”».
A lei cosa dicono?
«M’hai fatto ride, m’hai fatto piagne, questo film è un capolavoro, quest’altro una stronzata. Ma penso si veda che non ho un calcolatore al posto del cuore. Io posso discutere con tutti, con il nobile e con il popolano, senza avere mai bisogno di parlare male di nessuno. Con gli altri ho un’empatia profonda. E come dico in Io sono Tempesta: “L’empatia è il migliore degli affari”».
Il suo è un mestiere difficile?
«Vedo certi giovani attori, nel mio ambiente ce ne sono tanti, e provo tenerezza. I compromessi, la voglia di arrivare a ogni costo, l’elemosina negli occhi. Se elemosini, in cima non arriverai mai».
Si considera un prodotto di periferia?
«Come l’80 per cento della popolazione, ma non sopporto il pregiudizio di chi vuole incasellarti a priori. Ai Parioli, come dissi a un dirigente televisivo, starei benissimo. “Giallini, lei vivrebbe bene al Pigneto”. “Al Pigneto mio padre ci andava a mignotte” risposi. Non era vero, ma volevo godermi l’imbarazzo. Ho sempre desiderato solo quello che mi divertiva davvero e per apparire non mi sono mai snaturato. Alle feste nel centro di Roma da ragazzo incontravo ragazze che si chiamavano immancabilmente Ginevra o Porzia e sembravano provenire da un mondo inarrivabile. A conquistarle erano sempre quelli con il triplo cognome».
Le dispiaceva?
«Ma neanche un po’. Nella vita credo di essere stato a due feste in tutto. Mi rompevo i coglioni e non ci sono più andato».
Si sente un uomo fortunato?
«C’è gente molto più sfortunata di me, ma come faccio a considerarmi fortunato? Fortunato proprio no, fortunati sono altri».
giallini geriniLORO CHI - MARCO GIALLINI E EDOARDO LEOLORO CHI - MARCO GIALLINI E EDOARDO LEOtre tocchi argentero santamaria giallinitre tocchi marco giallini luca argentero foto dal film 2 midMarco Giallini Marco Giallini ALESSANDRO GASSMANN E MARCO GIALLINI IN BEATA IGNORANZA gassmann giallinimarco giallini in una scena del nel quarto episodio di romanzo criminale la serie GIALLINI SCHIAVONEgiallini verdone favinoMarco Giallini Marco Giallini giallini dazzi favino