IL NECROLOGIO DEI GIUSTI - JERRY LEWIS DIVENTA DA GRANDE COMICO DEL DOPOGUERRA ANCHE UN GRANDE REGISTA DA METTERE ASSIEME, OLTRE AI FRATELLI MARX E A BUSTER KEATON, ANCHE A JEAN-LUC GODARD O A JEAN-MARIE STRAUB - CHIUDEVA PERFETTAMENTE PIÙ CICLI DI PASSIONI CINEMATOGRAFICHE, COSTRUENDO UN CINEMA COMICO COMPLESSO E GENIALE
Marco Giusti per Dagospia
Ha ragione Adriano Celentano. Mezzo mondo dello spettacolo ha iniziato imitando Jerry Lewis, con le sue smorfie, i capelli tutti davanti agli occhi, le gambe a X, ma anche con il doppiaggio da urlo di Carletto Romano, che non aveva proprio il suo fisico e non aveva assolutamente nulla di spirito comico ebreo da schlemiel americanizzato. Un esercito che va da Franco Franchi ai Brutos a Celentano, che non ebbe l’esclusiva, ma che modellò il suo personaggio su Jerry.
Prima, molto prima delle rivalutazione critiche francesi di “Positif” e “Cahiers du Cinéma”, dei dotti saggi di Robert Benayoun, gli italiani si erano costruiti un loro Jerry Lewis nei primi anni ’60 da mettere accanto a Totò e ai suoi film. Noi ragazzini andavamo a vedere i capolavori di Jerry, da Artisti e modelle a Il Cenerentolo, da Ragazzo tuttofare a Jerry 8 e ¾, da L’idolo delle donne a Le folli notti del Dottor Jerryl, che allora era il nostro preferito e conoscevamo a mente, esattamente come andavamo a vedere i film di Totò ai tempi delle grandi riedizioni estive.
Pronti poi a rifarlo a casa coi fratelli e i cugini. Diciamo che non era difficile rifare Jerry Lewis. Bastava fare un po’ lo scemo e imitare la voce di Carletto Romano. E mettersi i capelli davanti. Ma chi aveva gli abiti di Buddy Love? Chi poteva scendere le scale come Jerry nel Cenerentolo accompagnato dalla band di Count Basie? Jerry e Totò erano comici liberatori per chi era nato o cresciuto nel dopoguerra. Perché erano totalmente liberi. Potevano fare di tutto.
Lo schlemiel, che un po’ il savant fou del paese, può fare di tutto perché è libero. Le guerre critiche con gli anti-lewisiani vennero dopo. Per chi è cresciuto coi Cahièrs, Jerry Lewis diventa da grande comico del dopoguerra anche un grande regista da mettere assieme, oltre ai Fratelli Marx e a Buster Keaton, anche a Jean-Luc Godard o a Jean-Marie Straub.
Lewis chiudeva perfettamente più cicli di passioni cinematografiche. Perché staccandosi da Dean Martin e prendendo a modello Frank Tashlin come maestro assoluto di commedia, e con lui tutte le lezioni della grande animazione americano degli anni ’30 e ’40, Jerry costruisce un cinema comico complesso e geniale dove le gag chiudono le costruzioni visive, pensiamo al set incredibile de L’idolo delle donne, o fanno esplodere le costruzioni narrative, vedi appunto il doppelganger Buddy Love, che è una sorta di Dean Martin lewisiano (per non arrivare alla coppia di Dale Cooper in Twin Peaks…).
Il cinema di Jerry Lewis, da quando diventerà suo anche come regia e sceneggiatura, cioè da Ragazzo tuttofare, un esordio difficile costruito in onore di una latro suo maestro, Stan Laurel, diventerà negli anni ’60 qualcosa da analizzare e studiare con passione da critici e accademici. Jerry riprende dalla lezione dello slapstick, dalle comiche di Stan Laurel, dai cartoon Warner diretti da Frank Tashlin, ma anche dalla tradizione dei monti Catskill dove era cresciuto come giovanissimo comico.
Quando si mise con Dean Martin, tutto questo non si vedeva, sommerso da film anche modesti e dalla grazia del suo partner, decisamente più charmant con le donne. Anche se Artisti e modelle di Fran Tashlin va giusto in quella direzione. Ma i suoi capolavori, ripeto, quelli per cui tanto abbiamo combattutto negli anni ’60 e ’70, sono i suoi film successivi. Fuori dalla coppia e da coppie possibilie e impossibili. Jerry rielabora tutto il cinema comico e il cartoon precedente e ce lo riporta come se fosse un Quentin Tarantino di allora. Violento e perfetto.
Tutto questo durerà fino alla fine degli anni ’60, perché i suoi film anni ’70, purtroppo, non erano capolavori, anche se adoro Scusi dov’è il fronte?, dove se la vede direttamente con Hitler e il nazismo. Credo che il film maledetto, The Day The Clown Cried, girato e montato nel 1972 e mai mostrato ufficialmente, segni una vera svolta nella sua carriera. Dopo non riuscì più a girare nulla di veramente grande per proprio conto, da Bentornato, picchiatello! a Smorgasbord.
Partecipò a assurdi progetti, come Slapstick di Steven Paul, un totale disastro. Ma King of Comedy di Martin Scorsese con Robert De Niro come suo assillante fan è un capolavoro che ci riporta intatta tutta la complessità del cinema di Jerry Lewis e del mondo dello spettacolo americano del dopoguerra.
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Il suo Jerry Lansford, inseguito dallo stalker Rupert Pupkin, è ancora un giusto alter ego alla Buddy Love, mentre Rupert Pupkin è una sorta di altro doppio impazzito del comico. Jerry, Scorsese e De Niro giocano senza limiti sulle regole del cinema e dello spettacolo americano mettendo in scena una violenza che nessuno si sarebbe aspettato.
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Non è un film comico, è qualcosa di eccessivo e di grandioso dove Jerry si permette di mostrare il suo lato più intimo e terribile. Purtroppo non girrerà mai più un film così bello negli anni successivi, anche se è bello ritrovarlo in Ariziona Dream di Emir Kusturica. Ma vederlo grasso e invecchiato a Cannes a presentare un filmetto senza consistenza mi ha fatto un certo effetto. Il Jerry Lewis che amavamo non era così.