“IL FATTO CHE L’OPERA DI ROMA ABBIA IMPORTATO LA “SALOME” DI KOSKY DA FRANCOFORTE DIMOSTRA CHE ATTUALMENTE È DI GRAN LUNGA IL MIGLIOR TEATRO ITALIANO” – ALBERTO MATTIOLI: “KOSKY PUÒ PIACERE O NO, MA NON C’È DUBBIO CHE SIA FRA I MAGGIORI REGISTI D’OPERA DEL MONDO, E INFATTI IN TUTTO IL MONDO SE NE SONO ACCORTI. EBBENE: IN ITALIA NON GLI HANNO MAI AFFIDATO UNA NUOVA PRODUZIONE, SOLO RIPRESE…”
Alberto Mattioli per lastampa.it - Estratti
A parte il genio, non c’è niente. Soltanto delle quinte nerissime e un raggio di luce, onnipresente e onnipotente: la luna, continuamente invocata a fare da testimone alle follie umane. Al regista Barrie Kosky basta e avanza questo per realizzare all’Opera di Roma la “Salome” più potente e sconvolgente degli ultimi anni. Per nulla “provocatoria”, come si dice in cretinese, anzi del tutto coerente con Strauss e ancora di più con Wilde, a meno beninteso di non confondere la drammaturgia con il bric-à-brac del decadentismo più ovvio, il che è legittimo ma, come dire?, un po’ riduttivo.
Provocatorio, semmai, questo spettacolo è rispetto alla tradizione recente di “Salome”, dopo tante produzioni che mettono l’accento sulle ragioni per le quali la principessa reclama la testa del Battista con le relative perversioni necrofile.
Quante volte ci sono stati raccontati la sua famiglia disfunzionale, il rapporto con la madre tremenda e il patrigno ambiguo e pedofilo: tutto giusto, per carità, ma a Kosky, nella sua estrema parsimonia di mezzi, non interessa. Ci racconta cosa succede, lasciando in ombra il perché. E lo fa con un niente in cui c’è tutto: l’occhio di bue illumina i singoli personaggi o addirittura solo dei dettagli dei loro corpi (come la mano di Erode quando si accorge che è sparito l’anello) e il resto è solo recitazione, e che recitazione: ogni nota un gesto, un’espressione, una trovata.
La danza dei sette veli consiste in lei che, vestita, si siede per terra, allarga le gambe e inizia a tirare fuori da dove potete immaginare delle lunghissime trecce di capelli: una ciocca l’aveva strappata poco prima a Jochanaan, e chi vuole intendere intenda. Kosky recupera anche la profonda ma dimenticata ironia del testo wildiano, che per essere black non è meno humour.
La coppia scoppiata Erodiade-Erode non è solo tremenda ma anche buffa, due goffi arricchiti, lei petulantissima nel suo tailleurino simil Chanel e lui commendatore invasato in doppiopetto e cravatta vistosa. Gli ebrei, ebbri delle loro dispute teologiche (a proposito: ottimo il quintetto, non capita spesso), hanno la testa coperta da cappucci, perché il dogmatismo acceca.
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Naturalmente anche la parte musicale è di livello (quasi) equivalente. Marc Albrecht rinuncia alle squisitezze jugendstil e alle estenuatezze decadentistiche a favore di una lettura risolutamente novecentesca, secca e tagliente.
Questo rende, a mio gusto, un po’ arido il duetto fra Salome e il Battista (infatti quando lei ha cantato “Dein Leib ist weiß wie der Schnee auf den Bergen Judäas” non mi sono sciolto come al solito, scusate la testimonianza personale, ma per me è la più bella frase uscita dalla penna di Strauss); il seguito però è impeccabile, affilato come la lama di Naaman e altrettanto inquietante, un crescendo di tensione sonora dove quel che si ascolta si intreccia con quel che si vede e viceversa, e lo moltiplica: spiace, ma l’opera lirica è questo, non evasione o commozione, e consolatorie entrambe.
L’Orchestra dell’Opera conferma il suo attuale stato di grazia, ancora più confortante perché sul podio non c’era il direttore musicale ma un ospite. Salome è Lise Lindstrom: voce un po’ vuota in basso (ma lei evita intelligentemente di forzare) che si allarga e allunga nel registro superiore, sebbene qualche acuto di forza sia un po’ avventuroso.
Ma l’interprete ha capito tutto del personaggio e della regia, e l’attrice è eccezionale. Notevolissimo anche vocalmente Nicholas Brownlee (sarà un discendente dell’altro baritono John, star dei mitici Mozart di Busch a Glyndebourne?), e poi un Battista che poco prima dell’inizio dello spettacolo esce in ciabatte e vestaglia dall’ingresso dei camerini per fumarsi serenamente una sigaretta dev’essere un uomo di tale strabordante simpatia che lo acclameremmo anche se ci cantasse “Quel mazzolin di fiori”. John Daszak è un altro grande artista, sapevamcelo, e questo suo tremilionesimo Erode lo conferma; idem Katarina Dalayman come Erodiade. Sono inappuntabili anche i comprimari, a cominciare dal Narraboth charmant di Joel Prieto.
Per finire, una considerazione in questi tempi di sovrintendenti scelti o da scegliere indipendentemente da qualsiasi valutazione artistica. Kosky può piacere o no, ma non c’è dubbio che sia fra i maggiori registi d’opera del mondo, e infatti in tutto il mondo se ne sono accorti. Ebbene: in Italia non gli hanno mai affidato una nuova produzione, solo riprese. Che l’Opera di Roma abbia importato questa “Salome” da Francoforte dimostra, almeno, che attualmente è il miglior teatro italiano. E di gran lunga.