QUARTO POTERE, UN IMPERO IN DECADENZA – UNO DOPO L’ALTRO, DALLA WINTOUR A JILL ABRAMSON, CROLLANO I DIRETTORI DEI GRANDI GIORNALI IN AMERICA - LA TECNOLOGIA HA TOLTO LORO AUTOREVOLEZZA E POLTRONA - CON UN'UNICA ECCEZIONE: IL DIRETTORE DI ‘VANITY FAIR’ GRAYDON CARTER

Mattia Ferraresi per "il Foglio"

Ad apparire come un impero in decadenza non è tanto o soltanto l'industria giornalistica in senso stretto, che agitandosi e procedendo per tentativi più o meno redditizi può trovare il modo di venire a patti con il calo strutturale delle inserzioni pubblicitarie e lo stravolgimento di tutti i modelli di business tradizionali.

Quel che appare in via di evaporazione è l'alone di autorevolezza e potere che il giornalismo rappresentava presso la gente che piace, che spesso coincide con la gente che paga, quando ancora il mondo del glamour, anticamera dell'influenza culturale e politica, era stradominato dai direttori di gloriose pubblicazioni che in maniera arbitrariamente diseguale distribuivano lusinghe e stroncature, mazzate e marchette.

Nell'organigramma dell'élite newyorchese i direttori dei giornali occupavano caselle importanti quanto quelle di banchieri e ministri, con i quali condividevano serate di gala, campi da tennis, ristoranti tirati a lucido, cene di beneficenza, colazioni di lavoro, drink lontano dai pasti, battaglie umanitarie e altri rituali del falò delle vanità.

E' quella, più che la "bottom line", la faccenda che si sta sgretolando. Nel mondo di oggi Anna Wintour passa tre anni a occuparsi quasi esclusivamente di raccogliere soldi per il presidente sperando di ricevere in cambio la nomina all'ambasciata di Londra o Parigi, così da ricostruire in altra forma la sfera d'influenza perduta.

E si imbestialisce non poco quando le dicono che tre anni di sgomitate, organizzazione compulsiva di eventi, sorridenti scambi di favori e lisciate di pelo nel verso giusto non le hanno ottenuto nulla. Una volta, nel suo grande mondo antico, le sarebbe bastato schioccar le dita.

Nel mondo di oggi la direttrice del New York Times - una che si è fatta una reputazione in trenta e passa anni di sudata carriera, si è tatuata il simbolo del Times sulla schiena, è stata investita da un camioncino mentre attraversava la strada, si è ripresa e ha raccontato l'esperienza in un toccante articolo che è anche, tragicomicamente, il suo ultimo pezzo sul tanto amato giornale - viene scaricata senza complimenti per incapacità di gestione della squadra e per poco nobili questioni di disparità salariale. La trovano il giorno dopo su Instagram vestita da boxeur che molla pugni a un sacco in un anonimo scantinato con i mattoni a vista. Non proprio l'apoteosi del glamour.

Nel mondo di oggi Martin Amis vive a Brooklyn e Piers Morgan è un tifoso frustrato dell'Arsenal scaricato dalla Cnn. Il brand di Rupert Murdoch sopravvive con incredibile tenacia, rinfocolato dagli indomiti Roger Ailes di cui s'è circondato, ma Murdoch l'australiano è per vocazione un outsider dell'alta società.

Tina Brown, nome che qualche decennio fa ispirava sacro terrore, genuflessioni, attacchi di panico e infondeva un senso di profondo rispetto da Sutton Place a Sunset Boulevard, oggi è declassata al rango di fallimentare direttrice di un progetto al confine fra la carta e il web che ha bruciato 100 milioni di dollari come se nulla fosse.

Una signora di classe sopraffina e carattere d'acciaio, la "Stalin sui tacchi a spillo", che credeva di reinventarsi e reinventare il giornalismo che le stava sfuggendo fra le dita riciclando vecchie idee da magazine e sfruttando i danari di investitori non proprio di primissimo pelo.

I patinati successi del New Yorker e di Vanity Fair sono antiche reliquie di un evo perduto in cui lei dettava linea, stile, tono e tutti gli altri prendevano nota. Ah, i bei tempi in cui Demi Moore incinta finiva in copertina e c'era finalmente qualcosa di cui parlare.

Oggi, nel tentativo di contare, insegue la corrente dell'empowerment femminile, degli incontri motivazionali e dell'orgoglio di genere, si lancia in litigi con Sheryl Sandberg su un dilemma di cui non si sentiva troppo il bisogno: le donne di oggi dovrebbero "lean in" oppure "lean on"? La lista degli orfani di un universo ricco e perduto è lunga.

Ma è la - breve - lista dei superstiti di quell'impero in decadenza a essere più interessante. In cima c'è Graydon Carter, l'uomo che è stato al timone di Vanity Fair negli ultimi 22 anni e che, come scrive Michael Wolff, ha la caratteristica unica di "aver mantenuto viva l'illusione di essere ancora l'arbitro, il maestro di stile, il broker, l'ospite e il monarca assoluto del suo regno editoriale".

E' soltanto un'illusione, si capisce, ma abbastanza solida da essere percepita come reale, quindi più che sufficiente per dare ossigeno a un sistema di potere e di stile in stato vegetativo. Qualche settimana fa Carter è stato inserito nella Hall of Fame dei direttori di magazine, massimo riconoscimento alla carriera e segno che il suo regno a Vanity Fair potrebbe essere prossimo alla fine.

Qualcuno dice che dovrebbero nominarlo direttore a vita, ma lui, maestro di tempismo, sa che ancora più importante di avere successo in un'impresa è evitare di essere trascinati nella polvere dall'impresa stessa. Bisogna gettarsi durante la fase ascendente, alla peggio in quella di assestamento, per conservare intatto l'allure.

Non può andarsene dopo essere uscito dalla lista dei membri del "new establishment" creata una quindicina d'anni fa proprio con il proposito di mappare l'arrembante classe dirigente che avrebbe mandato in pensione quelli come lui. Carter è un canadese con capelli grigi ben scompigliati - qualcuno ha scritto che il suo parrucchiere è Frank Gehry - giacche di cui il direttore di un sito di data journalism non immagina nemmeno l'esistenza e molto senso dell'umorismo.

Non è uscito con una laurea da nessuna delle due università che ha frequentato. Il terzo matrimonio per il momento sembra reggere. All'inizio della carriera giornalistica è riuscito a dirigere un magazine, la Canadian Review, che vinceva premi uno via l'altro, vendeva copie a profusione e dopo un anno di tale gloria ha dichiarato bancarotta.

L'esperienza, però, gli è valsa un trasferimento a New York e un contratto con il Time. Dopo la prima settimana di lavoro parlava già al suo nuovo amico Jim Kelly, che poi diventerà il direttore del giornale nei suoi anni di gloria, di abbandonare il Time per fondare un nuovo magazine chiamato Spy, roba satirica per cavare la pelle ai giornali perbene.

Dopo cinque anni passati a occuparsi di economia e spettacoli fra Time e Life, Carter riesce, insieme a Kurt Andersen e Tom Phillips, a fondare Spy, che inaugura il genere demenziale-chic che contemporaneamente sfotte e invidia i grandi magazine di costume e intrattenimento e la società che da questi promanava. A Demi Moore incinta Spy risponde con Bruce Willis incinto. Titolo: "Hollywood's Next Big Thing?".

Per tacere poi di John Fitzgerald Kennedy in versione drag queen o del "big secret" che Hillary Clinton celava sotto la gonna svolazzante. Spy era all'incrocio fra il triviale e l'eccessivamente raffinato, poteva affiancare un titolo che in certe caserme sarebbe apparso un po' troppo spinto a una spigolatura fatta in punta di penna, così sottile da risultare leziosa, di maniera. Fra gli idoli polemici costanti di Spy quello che ha collezionato in assoluto più presenze è Donald Trump.

Fustigare la gente che piace era un modo, tutto sommato, per far parte di quel mondo, e già allora Carter eccelleva in quella particolare arte che consiste nel poter dire tutto e il suo contrario senza apparire ipocrita. Il fustigatore dei soffietti giornalistici - vittima preferita in questo senso era, strano a dirsi, Tina Brown - è diventato un malcelato ufficio di pubbliche relazioni senza destare particolari problemi o attirare antipatie. Se Spy fosse ancora attivo dedicherebbe una copertina irriverente a Carter.

Questo è un altro segreto di questo esemplare della società patinata in via di dismissione: potrebbe lui stesso essere il soggetto di una copertina del magazine che dirige. Impossibile applicare lo stesso criterio a un giornale online o a un aggregatore, ché non rappresentano un mondo. Finita l'esperienza di Spy, Carter è passato al New York Observer e poi quasi subito a Vanity Fair, a ricoprire - ironia - il posto lasciato vacante dalla Brown spostata al New Yorker per fare la stessa cosa che aveva fatto con l'altra testata di Condé Nast.

E' l'inizio dell'impero di Carter, unico a resistere in mezzo alla decadenza di una generazione, e anche per quell'oasi le prospettive non sono brillanti. Da tempo si mormora di un generale riorientamento del business di Condé Nast verso Londra, con New York leggermente in seconda fila; ci sono assetti da ridefinire e distanze da prendere, ed è lecito pensare che Carter voglia essere fuori da queste discussioni.

In più, basta dare un'occhiata alle copertine di Vanity Fair e ai pezzi più succulenti per notare una certa propensione verso le vicende del passato. Il più rumoroso scoop degli ultimi mesi riguarda le rivelazioni di Monica Lewinsky a quasi vent'anni dalle "inappropriate relazioni" con Bill Clinton alla Casa Bianca.

Qualche mese fa si è scatenato anche il "Paltrow Affair", curioso caso di litigio con una celebrity prima ancora dell'uscita dell'articolo. Carter, acutamente notando durante una riunione di redazione che il mondo intero si divide fra pro Paltrow e anti Paltrow aveva commissionato un articolo che approfondisse questo curioso fenomeno che non è propriamente sulla bocca di tutti nell'anno di grazia 2014.

Lei è venuta a sapere dell'idea e immediatamente ha scritto a tutti i suoi amici di Hollywood intimando di chiudere per sempre ogni contatto con Vanity, che commissionava ritratti privati senza chiedere il permesso. L'attrice aveva faccende private da tutelare, che poi sono venute fuori, e Carter ha finito per divincolarsi dalla vicenda scrivendo una lunga lettera che spiegava ai lettori che l'articolo, per quanto non fosse cattivo nei confronti di Paltrow, non sarebbe uscito: "E' un articolo che leggerei su un giornale, ma che non voglio pubblicare".

La logica non è sghemba in un mondo fatto di favori, piazzamenti, pubbliche relazioni ossessive, paranoie, finti scandali, servizi con le funzioni di Photoshop portate alle loro estreme conseguenze. Carter ha un particolare talento per la conciliazione: "Non detesto nessuno. Ma c'è una mezza dozzina di persone che preferirei non vedere né sentire mai più".

Anche in politica applica una logica simile. Si definisce libertario, etichetta che gli permette di virare da una parte all'altra dello spettro politico senza tema di essere etichettato come ipocrita: "Non voto. Trovo che entrambi i partiti siano allo stesso tempo penosi e ottimi. Penso che sia impossibile per chiunque stia invecchiando sostenere al cento per cento un solo partito. C'è molto più grigio di quando ero giovane".

C'è molto più grigio di quando ero giovane è una definizione di taglio aforistico che calza perfettamente con la personalità di Carter, uomo che ha sempre dato la vita per fama, potere e denaro ma non solo: "Non finisci a fare il giornalista per i soldi. Lo fai per avere un lavoro decente, divertirti e magari vedere il mondo.

Secondo questi criteri, ho superato decisamente le mie aspettative. Sono stato retribuito bene nel corso degli anni ma, ad essere sincero, vista la vita meravigliosa che ho avuto e continuo ad avere, forse lo avrei fatto anche gratis", ha detto qualche tempo fa.
Accanto al Carter patinato convive - senza increspature o bisticci - il Carter impegnato, quello che nel 2004 ha scritto un atto d'accusa contro l'Amministrazione Bush che trasuda la passione civile che in quel momento si portava con grande disinvoltura proprio nei salotti che Carter dominava.

Quando parla dei maltrattamenti degli animali si fa grave come un attivista della Peta appena convertito alla causa. Oppure come se stesso quando si trova a dover preparare l'evento più importante dell'anno, l'after party di Vanity Fair dopo la notte degli Oscar.
Girano un'infinità di leggende intorno alle misure di sicurezza allestite per tenere lontani giornalisti, curiosi, balordi, sulle spese pazzesche per allestire la festa a cui tutto lo showbiz brama di partecipare, sugli intrattenimenti inimmaginabili che animano la serata.

Se il mondo di Carter fosse una religione, la festa di Vanity agli Oscar sarebbe la messa di mezzanotte a Natale. Ma, come tutto il resto del suo mondo, anche quella liturgia ha perso l'ineffabile fascino di un tempo, quando a Hollywood rappresentava l'ideale linea di demarcazione fra l'essere e il non essere.

Ora ci sono attori che addirittura boicottano apertamente l'afterparty, scelgono mete più private e con meno protocolli, se ne fregano delle antiche tradizioni. Carter non beve nemmeno più la solita vodka per tenersi su: a 65 anni è meglio virare sullo champagne, che "dà la sveglia", garantisce l'ultimo re della gente che piace.

 

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