QUANDO NEW YORK ERA UN VILLAGGIO NEL FANGO - LE FOTO MOZZAFIATO DELLA GRANDE MELA NEL 1811, SCOVATE CASUALMENTE IN UN MERCATINO DA STEFANO E SILVIA LUCCHINI, SCODELLANO UN PICCOLO VILLAGGIO DI CAPRE, MAIALI E OCHE DI 30MILA ABITANTI - FU ALLORA CHE I “PADRI DELLA CITTÀ” DISEGNARONO LA PIANTA DI MANHATTAN, PARTENDO DA CENTRAL PARK, E RESERO UN ISOLOTTO GRANDE METÀ DEL COMUNE DI MILANO LA NUOVA BABILONIA DEL MONDO…
1- NEW YORK POETICA (IN BIANCO E NERO). IL VOLUME FOTOGRAFICO CURATO DA STEFANO E SILVIA LUCCHINI
Affaritaliani.it
"New York è una città da guardare non solo con gli occhi ma con il cuore. L'idea di questo libro è nata quando due anni fa ho acquistato un curioso album di foto. Il fascino intriso su quei rullini, scatti fugaci di quella New York che non dorme mai, dall'estremo sud di Manhattan sin su al nord, oltre l'eterno Central Park.
E la vediamo in continuo movimento, dinamica nel suo essere una grandiosa metropoli, perfetta nei suoi palazzi, luminosa malgrado gli scatti in bianco e nero, sempre la più emozionante, punto di incontro di gente, realtà e sentimenti diversi. Sempre lei, quella New York che rimane impressa nel cuore di tutti. Evanescente e intrigante, aperta a riflessioni di speranza, meta finale di milioni di fuggitivi. Lei e solo lei, la nuova Babylon scintillante ed effervescente. Con la speranza di risonanze migliori", scrive Stefano Lucchini, co-autore con la moglie Silvia del bel volume fotografico (piacerà sicuramente a Woody Allen e ai fan dei suoi film...) "NEW YORK - Born back into the Past" (testi in italiano e inglese, con introduzioni di Geminello Alvi e Gianni Riotta).
Il libro, pubblicato da Alinari-24 Ore e ricco di citazioni d'autore che presentano le 110 immagini, scattate negli anni '40),
2- QUANDO PARK AVENUE ERA UN VILLAGGIO DI FANGO
Vittorio Zucconi per "la Repubblica"
Miserabile villaggio di «fango, capre, maiali e oche» nel 1811, come lo definì il creatore del Central Park, Frederick Olmestead, fu da quella melma primordiale che New York affiorò duecento anni or sono con la pianta della propria futura magnificenza.
Era l´anno, quel 1811, quando i "padri della città " che oggi splende sulla collina dei sogni e degli incubi del mondo crearono il genoma dal quale si sviluppò Manhattan.
Disegnarono quella griglia stradale cartesiana e grids, quella "pianta romana" con castro, decumano e anche le tre fosse naturali di acque attorno a protezione dell´isola, che avrebbe resa possibile la fortezza del grattacieli e quindi la sua inconfondibile skyline, il suo profilo.
Nel panico da immigrazione che periodicamente afferra le nazioni e le comunità magnete capaci di attrarre masse umane in fuga dalla disperazione, è facile immaginare che cosa provassero i triumviri ai quali fu affidato il compito di inventare un piano di sviluppo per un´isola di 87 chilometri quadrati - meno della metà del comune di Milano - che fosse in grado di accogliere e permettere l´esplosione demografica ed economica alle porte.
In quel 1811, gli appena trentamila abitanti che si erano insediati nel 1790, fra i pochi nativi superstiti, i primi coloni olandesi e irlandesi sbarcati subito dopo l´Indipendenza, erano diventati già novantaseimila vent´anni dopo, grazie allo sviluppo del porto. I triumviri, il "Geometra dello Stato" DeWitt, l´affarista Rutheford e il "Governeur", come si scriveva allora, Morris, avevano ottimisticamente previsto 400 mila abitanti mezzo secolo più tardi. Una previsione spaventosamente errata per difetto: allo scoppio della Guerra Civile, nel 1860, a Manhattan si sgomitavano 800 mila esseri umani, il doppio.
Ma il magnifico piano della "Grande Griglia" disegnato dai tre commissari che avevano immaginato dodici avenue da Nord a Sud e 155 strade che le attraversavano da Est a Ovest tagliate dal serpente dello "stradone", Broadway, resse splendidamente, anche se confusamente alla spallata umana e alla zuffa dei proprietari di terreni che si videro espropriati o che seppero riccamente speculare sul nuovo piano regolatore.
Nella mostra aperta lo scorso dicembre e visibile fino ad aprile, le immagini fotografiche prese nel corso dell´800 e i documenti accumulati, fra transazioni e liti giudiziarie combattute da City Hall, dal municipio e dai privati, raccontano l´avventura di una città che seppe, come nessun´altra metropoli, passare dal fango all´urbanizzazione più drastica in meno di un secolo. E costruire un catasto minuzioso, con valori immobiliari diligentemente annotati e aggiornati anno dopo anno per costruire quella base di imponibile, Ici o Imu si direbbe altrove, che rappresenta le fondamenta di ogni comunità americana.
Dal nulla. Le foto di quella che allora si chiamava, nel "Piano Maestro della Grande Griglia", la Fourth Avenue e oggi conosciamo come Park Avenue scattate da Peter Baab nell´inverno del 1882 mostrano ancora la vuota, sparsa quiete di una strada destinata a diventare l´indirizzo dei ricchi e famosi pochi decenni più tardi.
E rammentano quell´atmosfera da villaggio appena uscito dalla ruralità della propria storia, ma già saldamente ingabbiato in quella rigorosa, rigida razionalità cartesiana di una pianta che permette ancora oggi al più sprovveduto dei tassisti appena sbarcati di risalire o ridiscendere la corrente del traffico seguendo la numerazione.
Fu detto allora, e indicano anche i curatori della mostra, che i triumviri della commissione pianificatrice avessero più intenzioni speculative che razionaliste e quella pianta avesse lo scopo di divide et impera di lottizzare in rettangoli e quadrati una terra ancora quasi vergine per sfruttarla meglio.
Se fu così, ancora una volta il matrimonio fra ingordigia e intelligenza, che è l´essenza della società capitalista, ha saputo produrre figli straordinari e non certo secondi a quelli generati dalla rigida e deprimenti pianificazione centralista da città sovietiche. Ma si può capire, guardando i piani, le foto delle antiche strade percorse da tram a cavalli che impestavano Manhattan con il lezzo ammorbante dei propri effluvi anche più e peggio dei motori a scoppio, le villette "brownstone" che ancora aggraziano le traverse fino alla Harlem un tempo ambitissima, la furia disperata di Edgar Allan Poe.
Il grande scrittore bostoniano che aveva scelto Manhattan come propria residenza prima di rifugiarsi a Baltimora, guardava dalle finestre della fattoria di Brennan, una delle ultime vestigia agricole sull´isola, con sguardo torvo la crescita di New York secondo il genoma della implacabile griglia e della speculazione immobiliare. «Un sublime panorama bucolico sta morendo imprigionato in blocchi irregimentati e claustrofobici - scriveva Poe, sempre un po´ pessimista - L´alito acre del progresso sta facendo appassire e morire la bellezza di questa terra». Due secoli dopo, i 40 milioni di visitatori che ogni anno invadono New York dissentirebbero da lui.
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