QUINCY JONES, IL DIO NERO DELLA MUSICA – MOLENDINI: "A 11 ANNI VOLEVA FARE IL GANGSTER, A 13 INCONTRÒ COUNT BASIE E LA SUA VITA CAMBIÒ: "AVEVO UNA BABY GANG E UN GIORNO ABBIAMO FORZATO LA PORTA DI UN’ARMERIA. A UN CERTO PUNTO HO VISTO UN PIANOFORTE, L’HO TOCCATO E IL MIO CORPO HA COMINCIATO A VIBRARE" - NON HA PIÙ SMESSO DI VIBRARE: DA RAY CHARLES A MILES DAVIS, DA FRANK SINATRA ALLA "REINVENZIONE'' DI MICHAEL JACKSON ("OFF THE WALL") – IL VELO PIETOSO SUGLI ANNI PASSATI CON NASTASSJA KINSKI – VIDEO
Marco Molendini per Dagospia - articolo del 6 gennaio 2021
Nell’oceano dello streaming c’è un Eldorado della musica. Si chiama Qwest tv, una cassaforte favolosa dove si può vedere e ascoltare di tutto. Un giro su Qwest è un viaggio sull’ottovolante delle emozioni: da Miles Davis a Aretha Franklin, da Thelonious Monk a James Brown, da Keith Jarrett a Ray Charles, da John Coltrane a B.B.King.
Ma è anche un modo per capire perchè Quincy Jones è diventato un gigante dal talento smisurato che ha nelle orecchie tutti i suoni possibili, il patrimonio che l’ha trasformato in un masterchef della musica, un professionista meticoloso, un entusiasta senza freni dotato di un golden touch capace di far cantare Sinatra sulla luna (con Fly me to the moon, il pezzo portato sull’Apollo 11 da Armstrong e Aldrin, fin lì inosservato e al quale mise le ali con un arrangiamento carico di swing leggero e esplosivo), di spedire in orbita Michael Jackson, ragazzo prodigio arrivato al capolinea, di cucinare il coro pazzesco dell’inno solidale We are the world.
quincy jones michael jackson 5
Un sarto che ti cuce addosso il vestito giusto. Un Christian Dior della musica che a 11 anni voleva fare il gangster, a 13 incontrò Count Basie e la sua vita cambiò: «Avevo una baby gang e un giorno abbiamo forzato la porta di un’armeria. A un certo punto ho visto un pianoforte, l’ho toccato e il mio corpo ha cominciato a vibrare».
Non ha più smesso di vibrare, il ragazzo del ghetto figlio di un falegname che lavorava per i gangster di Chicago e di una mamma schizofrenica . A 14 suonava con l’amico Ray Charles nei jazz club di Seattle. A 15 Lionel Hampton lo ascoltò e l’assunse nella sua orchestra, poi un giorno la moglie del leader lo vide nel pullman con gli altri musicisti e disse: «Ragazzino, via da qui. Scendi, studia e torna».
Quincy è sceso, ha studiato, è tornato, poi è andato a lavorare nell’accademia della sua vita, la big band del Conte, la più travolgente macchina da swing. Un giorno gli telefona Sinatra: «Mister Q - lo chiamava così -, mi piacciono i tuoi arrangiamenti per Basie, facciamo un disco». E la sua carriera ha preso il volo, insieme a Fly me to the moon.
Oggi, l’ultimo grande mago della musica, è un signore di 87 anni. Ha visto in faccia la morte un paio di volte (da anni non può più suonare la tromba, il suo strumento, dopo un grave aneurisma), ma non si ferma un minuto. È dentro a mille imprese, (compresa Qwest, lanciata come etichetta discografica nel 1980, tre anni fa diventata piattaforma tv on demand che si può vedere dovunque, anche sul cellulare, e dove c’è tutta la black music dai tempi del be bop di Charlie Parker al rap).
No, non si ferma, mister Q, anche se per muoversi usa la sedia a rotelle: c’è la casa di produzione (musica, cinema, tv, pubblicità), c’è l’agenzia di artisti, ci sono le collaborazioni come quella con Montreux, c’è il merchandising, c’è da andare a caccia di nuovi talenti, c’è da celebrare se stesso e ci sono le tournée (due anni fa lo ha festeggiato anche Umbriajazz).
Vive in una villa mausoleo a Bel Air circondato da una truppa di figli, molti dei quali lavorano con lui, e dai cimeli della sua carriera. Un tour casalingo al suo fianco è un ubriacatura di ricordi: foto, poster cinematografici, locandine di concerti, una montagna di grammy, emmy, oscar.
La parete che fa da sfondo al bar è tappezzata di trombe storiche: «Vedi, questa è la mia, quella era di Dizzy Gillespie che un giorno, nel ‘55, mi chiama e mi dice: «Voglio che tu sia il mio trombettista, arrangiatore e direttore musicale». Quest’altra è di Clark Terry, il mio primo maestro, il mio idolo e mio fratello» - ci ha raccontato durante una visita in quel museo vivente, senza mascherare la nostalgia, per uno strumento che non può più usare -. Qui c’è tutta la mia storia, la storia di un ragazzo del ghetto che, senza la musica, a quest’ora sarebbe morto o in galera».
kalimba corrado rizza quincy jones gino bianchi
Ricorda volentieri, a volte con rabbia. Non parla con piacere di Michael Jackson: qualche tempo fa ha sparato contro di lui in un’intervista che stava per costargli un sacco di soldi, dove lo accusava di aver rubato canzoni (per esempio Billy Jean da State of Indipendence di Donna Summer) e di essere avido. No, non è finita bene la loro amicizia, anche se era cominciata meravigliosamente. E per Quincy quell’incontro ha corrisposto a un periodo favoloso:
Off the wall esce nell’agosto ‘79, Give me the night con George Benson nel luglio ‘80, The Dude con Ai no corrida nel marzo ’81, Thriller nel novembre ‘82, L.A. is my lady con Sinatra nell’agosto ‘84, We are the world nel marzo ‘85, Bad nell’agosto ‘87, Back on the block nell’agosto 89 (superbo tentativo di mettere affianco be bop e hip hop con Ray Charles, Dizzy Gillespie, Sarah Vaughan e Kool Moe Dee e Ice T.). Un decennio d’oro.
Il rapporto con Jackson si spezza dopo l’avventura di Bad. Quincy, così sostiene, voleva fargli cambiare ancora direzione, avvicinarlo al rap. Jacko disse di no, forse anche disturbato da quella presenza ingombrante.
Un fatto è che Michael non ha combinato molto, dopo aver divorziato dal masterchef che gli aveva cucito addosso il vestito di re del pop. Un’operazione scientifica, nata con l’impegno di mettere insieme quel che restava del bambino prodigio dei Jackson 5, immergendolo in una nuova idea di musica: il rhythm ’n'blues che incontra il pop ai tempi della disco su un terreno estremamente raffinato, addirittura colto ma dal forte intuito commerciale.
Jones ha preso il talento sperduto di Jacko e lo ha passato al setaccio della sua sapienza, riversando tutto quanto aveva imparato dalle prime avventure adolescenziali con Ray Charles, dagli anni con Lionel Hampton, un anticipatore dello spirito rock’n’roll, da quelli con Count Basie, dalla collaborazione con Dinah Washington, dagli studi orchestrali fatti a Parigi con la celebre Nadia Boulanger (fra i suoi allievi Barenboim, Bernstein, Legrand), dalla vicinanza con Sinatra, dalle esperienze crossover di dischi come Body Heath.
Metti tutto insieme, mescola, aggiungi la sapienza del miscelatore, il suo orecchio attento a tutto quello che c’è in circolazione, la sua consapevolezza che la musica nasce dal suono, il suono è tutto, come insegnano i grandi del jazz immediatamente riconiscibili dalla prima nota.
Ed ecco l’esplosione di Off the wall, il cui fascino sta certo nella voce di Jacko, che Quincy aveva comunque voluto rinnovare, ma anche nelle invenzioni ritmiche. Si capisce subito l’aria che tira dall’incipit di Don't Stop 'til You Get Enough dal voice over su un giro di basso, dagli strumenti che sembrano danzare, dallo scoppiettare di fiati e dagli archi che danno la scossa. È il segnale di quello che succederà.
La base sta nelle invenzioni ritmiche secondo la lezione di Basie, nel gusto di usare i fiati, nella capacità di scegliere e selezionare le canzoni mature, nel sapere dire di no, nel riuscire a dare un’unità stilistica utilizzando un’infinità di collaboratori magnifici. Off the wall è l’album dove al fenomeno Jackson vengono prese le misure in direzione pop con in testa, prese le debite distanze, l’eleganza e l’autorevolezza di un Sinatra per le nuove generazioni.
E’ proprio pensando a The Voice che Quincy vuole Michael in copertina con lo smoking, ed è pensando a The Voice che lo obbliga a studiare per ampliare il range della sua voce, ma sopratutto a dare enfasi e pesantezza alle parole. L’intento è talmente chiaro che Quincy pesca dal cassetto una canzone che voleva dare a Frank, She’s out of my life (da tempo parlavano di un progetto di nuova collaborazione che poi nell’84 sarebbe diventata LA is my lady). Gli regala così una della track più emozionanti del disco con la voce che si rompe nella frase finale.
Off the wall è l’inizio di Thriller, il disco dei record (100 milioni di copie ad oggi) che doveva chiamarsi Starlight, poi Quincy ebbe la folgorazione: Thriller, una parola dal suono spaventoso ma che serviva ad aggiungere un tocco di ambiguo mistero al personaggio Jackson.
Spaventoso e leggero, con la musica che cammina sul pazzesco walking bass line di Billie Jean, si abbandona ai fiati funk mescolati ai sintetizzatori, alle chitarre, ai battiti di mani di Wanna be startin’ something, si fa travolgere dalla chitarra rock di Eddie Van Halen in Beat it.
Non c’è dubbio, l’avventura cominciata con Off the wall ha seminato tutto quanto il mito di Michael Jackson ha raccolto e continua a raccogliere. Nei giorni scorsi Quincy Jones ha dovuto restituire agli eredi 6,9 milioni di dollari che gli erano stati riconosciuti in prima istanza come compensazione sulle royalties maturate da Smelly (Puzzolente, così lo chiamava giocando sulla sua mania per la pulizia) da quando non c’è più.
Comunque gli sono stati riconosciuti 2,6 milioni per licenze non pagate per This is it e 1,6 per i remix. Ma Mister Q a Jacko preferisce non pensare. La sua nostalgia del passato vale soprattutto per i tempi eroici del jazz, mentre riversa tutta la passione sulla sua Netflix, la Qwest tv. Per le recriminazioni non c’è spazio.
Neppure sul forfait di Prince allo stratosferico coro di We are the world: considerava orribile il pezzo di Jackson e Lionel Richie e, la sera della registrazione, preferí andare a un party. O sugli anni passati con Nastassja Kinski, su cui ha steso un velo pietoso nel film sulla sua vita girato dalla figlia Rashida (titolo Quincy).
Non nasconde, invece, che le ferite dolorose sono quelle che riguardano gli amici che non ci sono più, Ray, Basie, Frank. Per il resto la vita gli ha sorriso. E continua farlo, nonostante gli anni che passano. Del resto personaggi così non si fabbricano più.
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