UN SALTO PER LA LIBERTA’ - UN NUOVO STUDIO RACCONTA LA STORIA DEI 764 EBREI CHE SI LANCIARONO IN CORSA DAI TRENI DIRETTI AD AUSCHWITZ, CON IL DILEMMA MORALE DI LASCIARE GLI ALTRI ALLA RAPPRESAGLIA NAZISTA

da www.independent.co.uk

A differenza di altri, sul braccio di Leo Bretholz non c'è tatuato alcun numero. Fu uno di quelli che riuscì a fuggire dal treno che lo portava ad Auschwitz. Aveva 21 anni e si trovava nel carro bestiame che trainava gli ebrei da Parigi in Polonia.

Quella notte del 5 Novembre 1943, col suo amico Manfred Silberstein, avevano tentato per ore di rompere le sbarre di una piccola finestra. Usavano un maglione intinto nell'urina per avere più presa sulle sbarre. Rammenta: «Lottavo contro la nausea, ma riuscii a immergere il mio pullover nella latrina, tra escrementi che galleggiavano. Mi sentii umiliato, era la cosa più disgustosa che avessi fatto».

Il trucco funzionò. I due ragazzi allargarono le sbarre quel tanto che bastò per sgusciare via. Arrampicati all'esterno del vagone, si tenevano stretti facendo attenzione a non essere beccati dalle guardie che setacciavano il convoglio con le torce. Al momento giusto saltarono giù e si salvarono.

Leo Bretholz trascorse il resto della Seconda Guerra Mondiale a scappare dai nazisti. La sua morte, avvenuta una settimana fa, all'età di 93 anni, ha coinciso con la nuova ricerca pubblicata in Germania che racconta la storia di 764 persone scampate all'Olocausto saltando dai treni nazisti partiti da Francia, Olanda e Belgio e diretti al campo di sterminio.
La storica Tanja von Fransecky ha passato quattro anni a cercare fra gli archivi d'Europa e d' Israele e ad intervistare testimoni per pubblicare "Jewish Escapes from Deportation Trains".

Scoprì che si fuggiva nei modi più disperati dai convogli e che spesso la fuga riempiva di rabbia gli altri passeggeri perché la vendetta era certa: per ogni evaso, molti fra i rimasti venivano fucilati. Il dilemma morale era enorme, perciò tanti sopravvissuti non hanno raccontato la loro impresa.

Simon Gronowski, 82 anni, non ha parlato del suo salto verso la libertà per sessant'anni. Aveva 11 anni quando è stato preso e portato nel campo di transito di Antwerp, in Belgio. Aveva sentito parlare dei treni della morte e si era esercitato a saltare dal suo letto a castello nel campo nazista.

Nel marzo del 1943 lui e sua madre erano accovacciati in una maleodorante carrozza diretta ad Auschwitz. Grazie al raid della Resistenza che riuscì a liberare 17 ebrei dal treno, Simon e altri ebbero modo di forzare la porta. Il treno andava rapido, lui esitò ma poi si buttò. Le ultime parole che sua madre gli disse furono: «Il treno sta andando troppo veloce». Fu uccisa ad Auschwitz.

Simon saltò. Altri no. Non saltò il venticinquenne Willy Berler. Lui e altri sei prigionieri avevano rotto la finestra e balzavano giù uno a uno finché non vide una scena orribile: «Mi sporsi e vidi che il compagno che mi aveva preceduto era rimasto incastrato fra due vagoni, la sua testa schiacciata come un melone. Non ce la feci a saltare. Se avessi avuto idea di cosa mi aspettava ad Auschwitz, lo avrei fatto». Eppure è uno dei pochi ad essere sopravvissuto al campo.

Simon Gronowski, che ad Auschwitz perse la sorella, ha potuto fare i conti con la sua esperienza traumatica solo nel 2002, quando ha partecipato a una riunione con le guardie armate che avevano messo lui e la sua famiglia su quel treno maledetto. La guardia implorò il perdono, lui lo concesse e i due si abbracciarono. Dice oggi Gronowski: «La mia vita è stata piena di miracoli».

 

 

Oltre settecento prigionieri scapparono dai convogli Ingresso ad Auschwitz jpegIn fila ad Auschwitz Deportati ad Auschwitz

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