LA VERSIONE DI MUGHINI: "RABBRIVIDISCO NEL LEGGERE CHE SEI SCRITTORI DEL "PEN CLUB" SI SONO DISSOCIATI DALLA DECISIONE DI ASSEGNARE IL PREMIO “FREEDOM OF EXPRESSION” A “CHARLIE HEBDO”, ACCUSANDOLO DI ISLAMOFOBIA. AVESSERO LETTO IL LIBRO DI CHARB AVREBBERO CAPITO TUTTO"
1 - LA VERSIONE DI MUGHINI
Giampiero Mughini per Dagospia
Caro Dago, rabbrividisco nel leggere di questi sei scrittori del Pen Club (l’organizzazione di letterati la più celebre al mondo) che si sono dissociati dalla decisione del Pen American Center di consegnare il premio “per il coraggio della libertà d’espressione” al settimanale francese “Charlie Hebdo” i cui giornalisti e disegnatori sono stati massacrati a freddo da due delinquenti di strada divenuti militanti dell’islamismo il più radicale.
Dicono i sei che quel settimanale era “islamofobo”, che esprimeva “l’arroganza culturale della nazione francese” e dunque non riconosceva “la sua obbligazione morale verso un largo e indifeso segmento della nazione francese”.
Non conosco le opere di nessuno dei sei scrittori, non so se siano dei babbei di sinistra, o magari degli intellettuali occidentali che trasudano masochismo al punto da non vedere la differenza tra “i segmenti indifesi” della gente musulmana che abita la Francia e gli assassini che irrompono in una redazione o in un negozio appartenente a un ebreo. Forse ha ragione Salman Rushdie, uno che se ne intende di condanne a morte pronunciate dall’islamismo più radicale, il quale li ha definiti “Sei fighetti, sei autori in cerca di personalità”. Sei scrocconi intellettuali dell’accusa di “islamofobia”.
Avevo difatti nel frattempo appena finito di leggere “Lettre aux escrocs de l’islamophobie qui font le jeu des racistes”, un libro appena pubblicato in Francia, il libro che Charb (il direttore di “Charlie”) aveva finito di scrivere il 5 gennaio 2015, due giorni prima che i due fratelli – esponenti palpitanti dei “segmenti indifesi” della popolazione musulmana _entrassero in una redazione di gente armata di matita e li scegliessero uno a uno prima di ucciderli.
E’ un libro struggente, l’ultima lettera di un intellettuale occidentale che si sa condannato a morte e che te lo spiega cento volte che a lui non passa nemmeno per la testa di essere “islamofobo”: nel mirino della matita sua e degli altri collaboratori di “Charlie” ci sono soltanto gli islamisti radicali, quelli pronti a dare la morte in ogni modo agli “infedeli”. Sì o no è sacrosanto battere in ogni modo, a forza di colpi di matita, contro questi assassini ebbri di violenza e di morte?
Ovvio che le vignette e le caricature comportano un linguaggio che ha in sé qualcosa di eccessivo, e questo vale per le vignette di Giuseppe Scalarini, per quelle di George Grosz e del nostro Giorgio Forattini. Certo che non tutti i borghesi e gli ufficiali tedeschi degli anni Venti erano panciuti e ripugnanti per come li disegna Grosz, certo che Bettino Craxi aveva nulla a che vedere con gli stivali da gerarca fascista che gli faceva indossare Forattini.
E per questo un qualche militante socialista italiano avrebbe avuto il diritto di irrompere nella redazione di “Repubblica” e passare alle maniere forti contro Giorgio? Le vignette sono sempre un eccesso, un colpo d’ascia, una semplificazione intellettuale. Un colpo d’ascia di carta e di inchiostro.
IL LIBRO DI CHARB LETTERA AI TRUFFATORI DELL ISLAMOFOBIA
Sì o no una rivista occidentale dei nostri giorni ha il diritto di darli quei colpi d’ascia contro le esasperazioni più orrende dell’islamismo che ha dichiarato guerra all’Occidente, e senza per questo offendere in nulla i milioni di musulmani che vivono e pregano al loro modo in Occidente? Sì o no un vignettista ha il diritto di metterci in guardia contro quelle bande di terroristi religiosi pronte a tutto?
Charb lo scrive e lo ripete allo stremo. Ce l’avevamo contro le bande, non contro Maometto. L’esempio più celebre: la vignetta di “Charlie” in cui Maometto è rappresentato con in testa una bomba esplosiva in luogo del turbante. Scrive più o meno Charb: “Volevamo dire che tutti i seguaci di Maometto sono dei potenziali terroristi? Ma nemmeno per idea. Volevamo dire, o meglio volevamo che la gente capisse che quei dannati terroristi strumentalizzano Maometto e il suo insegnamento”.
E dunque l’islamofobia non c’entra nulla, c’entra il carattere aggressivo e un tantino semplificatorio che ogni vignetta si porta appresso. Ovvio che qualsiasi musulmano per bene ha tutto il diritto di denunciarlo quel carattere semplificatorio. Ha tutto il diritto di fare un giornale in cui sfottere Charb e i suoi amici. Carta contro carta. Solo che qui non si è trattato di carta, ma di mitra puntati alla faccia e alla fronte dei condannati a morte. E lascia stupefatti che quei sei babbei del Pen Club non lo comprendano.
2 - SCRITTORI USA CONTRO CHARLIE HEBDO
Giuseppe Sarcina per il “Corriere della Sera”
Sei scrittori, sei penne americane contro le matite spezzate di Charlie Hebdo: nessun premio a chi disprezza le minoranze e diffonde l’islamofobia. «Difendere la libertà di espressione e far progredire la letteratura»: da 90 anni il Pen American Center si fregia orgogliosamente di questa ragione sociale.
Il presidente Andrew Solomon pensava dunque fosse in linea con la prestigiosa storia del club assegnare il premio «Freedom of Expression Courage» 2015 al settimanale satirico Charlie Hebdo. Il 27 marzo la decisione viene comunicata al critico cinematografico Jean-Baptiste Thoret e al capo redattore Gerard Biard, sopravvissuti alla strage jihadista di Parigi.
Sembrava tutto pronto per il gran galà annuale del 5 maggio al Museo di Storia naturale di New York: 800 invitati da tutto il mondo, biglietto di ingresso 1.250 dollari e 150 mila dollari distribuiti tra i vincitori.
Ma nei giorni scorsi Solomon ha ricevuto sei mail di disdetta: non partecipiamo alla cerimonia, ci dissociamo dalla decisione di celebrare Charlie Hebdo . Peter Carey, 70 anni, scrittore australiano residente a New York, ha motivato così il suo dissenso: «Il Pen sembra non vedere l’arroganza culturale della nazione francese, che non riconosce la sua obbligazione morale verso un largo e indifeso segmento della sua popolazione». In altri termini, il riconoscimento a Charlie Hebdo nasconderebbe la segregazione sociale inflitta agli immigrati arabi. Carey ha due Booker Prize in bacheca per Oscar e Lucinda e La Ballata di Ned Kelly.
Ancora più netto è Teju Cole, 39 anni, nigeriano trapiantato nella Grande Mela, autore di Città aperta . Cole aveva commentato: «Charlie Hebdo sostiene di criticare tutte le parti, ma negli ultimi anni si è concentrato su provocazioni razziste e islamofobiche». Gli altri firmatari sostanzialmente condividono.
L’elenco comprende Michael Ondaatje, 69 anni, nato in Sri Lanka, oggi vive in Canada. Ha scritto Il paziente inglese con cui ha conseguito il Booker Prize. Poi Francine Prose, 68 anni, di Brooklyn; Rachel Kushmer, 47 anni, americana dell’Oregon e infine Taiye Selasi, 35 anni, inglese di origini ghanesi e nigeriane, autrice della Bellezza delle cose fragili .
Il gruppo dei sei, dunque, rilancia la discussione che negli Usa era sorta all’indomani dell’attentato parigino. Molti giornali non pubblicarono le vignette accusate di blasfemia dagli islamisti e diversi intellettuali presero le distanze dallo slogan planetario «Je suis Charlie». Tra questi anche il cartoonist Garry Trudeau, 66 anni, creatore della striscia Doonesbury.
Solomon ha respinto pubblicamente le critiche, descrivendo il lavoro dei redattori di Charlie Hebdo in questo modo: «C’è del coraggio nel rifiutare l’idea che vi siano cose proibite, una travolgente brillantezza nel dire ciò che qualcuno pensa non si dovrebbe dire». Meno tortuoso il parere di Salman Rushdie, 67 anni che è stato anche presidente del club Pen: «Se un’organizzazione che si batte per la libertà di espressione non difende e celebra persone che sono state uccise per dei disegni, allora, francamente, questa organizzazione verrebbe meno alla sua ragion d’essere» .
Francine ProseRachel KushnerTaiye Selasi