“SEMIRAMIDE” IS BACK! MATTIOLI: ALLA FENICE DI VENEZIA TORNA IL CAPOLAVORO INTEGRALE DI ROSSINI NEL 150ESIMO ANNIVERSARIO DELLA MORTE DEL COMPOSITORE: QUATTRO ORE E QUARANTA DI SPETTACOLO, DUE E 20 PER IL SOLO PRIMO ATTO (PIÙ DEL "PARSIFAL") - ECCO PERCHÉ QUEST’OPERA RAPPRESENTA UN 'UNICUM' NELLA STORIA - VIDEO
ALBERTO MATTIOLI per www.lastampa.it
E «Semiramide» sia. L’opera più eccessiva, visionaria e «mostruosa» (in senso etimologico, per carità, «monstrum», portentoso, eccezionale) di Gioachino Rossini e dell’intero melodramma italiano, questo capolavoro della dismisura, torna dove nacque, alla Fenice di Venezia. E torna nella sua splendente integralità: quattro ore e 40 di spettacolo, due e 20 per il solo primo atto (più del «Parsifal»!). Un’impresa, certo, e un successo. Qui si tenta di spiegare perché quest’opera sia un unicum nella storia. Chi invece è interessato soltanto alle pagelline rituali può scrollare verso il basso: ci sono, però dopo un po’ di testo. Purtroppo le questioni complesse restano tali anche cercando di semplificarle al massimo, e banalizzarle non è la strada giusta per risolverle. Vedere per credere l’attuale disgraziata contingenza politica nazionale.
Nel 1823, Rossini decide di chiudere la sua carriera italiana dove l’aveva cominciata, a Venezia. Sono passati dieci anni dal primo grande successo «serio», «Tancredi», e nel frattempo Rossini è diventato Rossini. Sceglie lo stesso teatro di allora, la Fenice, lo stesso librettista, Gaetano Rossi, e lo stesso «fornitore» di soggetti, Voltaire, là «Tancrède» e qui «Sémiramis» (e con le stesse trame improbabili. In queste opere tratte da Voltaire si ha sempre l’impressione che basterebbe che i protagonisti si parlassero cinque minuti per chiarire tutto...). Ma, appunto, dalla grazia sublime di «Tancredi» è trascorso un decennio, e in particolare i sette fondamentali anni napoletani, nella città allora più musicalmente vivace, internazionale e «avanti» d’Italia.
L’ideale rossiniano, quello di un teatro classico, razionale, fatto di simmetrie, equilibri, pudori espressivi e astrazioni estetizzanti resta. Ma ci si sono affacciati le suggestioni letterarie, la scoperta di Scott e, alla larga, di Shakespeare, i primi sentori romantici, Spontini, l’idea di un teatro che affronti anche lo squilibrio, l’eccesso, la follia. Le forme si dilatano, diventano sempre più complesse, fino ad arrivare al punto di rottura di capolavori sperimentalmente estremi e quindi indigeribili per il pubblico come «Ermione» o «Maometto II», con le loro «gran scene», i loro «terzettoni».
L’orchestra è più nutrita e presente, la vocalità sempre più complessa, virtuosistica, trascendentale. Il teatro di Rossini gli esplode fra le mani. Il dionisiaco si trova a convivere con l’apollineo in un equilibrio sempre più instabile. Il dramma non può più essere riassunto nella compostezza formale e nemmeno l’eroismo nei bassorilievi canoviani di «Tancredi», l’opera di questo «Raffaello giovane», parole di Stendhal che aveva capito tutto, tranne il successivo sviluppo del teatro rossiniano, «dove si cercherebbe invano la forza». Invece a Napoli «la forza» preme alle porte del Tempio. In senso figurato, non solo letterale, Rossini vive su un vulcano.
Dopo l’addio alle amate sponde di Partenope, Rossini decide di mettere un punto fermo, di trovare una sintesi. Però alla prova di «Semiramide» sceglie di non scegliere fra le tendenze divergenti del suo teatro, ma di farle convivere. In quest’opera ci dev’essere posto per tutto, per le nuove forme sempre più complesse (l’Introduzione e il Finale primo, mai così sviluppati) e il virtuosismo trascendentale, gli effetti stereofonici della «banda sul palco» e i delicatissimi intrecci vocali lesbochic dei duetti fra il soprano madre incestuosa e il contralto figlio eroe, una parte corale sviluppatissima e gli accenti già preverdiani di Assur, il finale tragico e gli svolazzi puramente esornativi di Idreno.
Ne consegue che il gigantismo è inevitabile, l’unica misura possibile è la dismisura, fino ad approdare da un lato all’archetipo, dall’altro all’utopia, a un teatro quasi irrappresentabile nella sua integralità e nelle non meno terribili difficoltà. «Semiramide» diventa così una specie di opera ideale, opera delle opere, misura di tutte le altre, monolite che incombe minaccioso e ispirante su tutto l’Ottocento italiano. Mentre lui, il divino Gioachino, parte per Parigi a ricominciare una carriera questa volta «europea», che si schianterà sull’altare del detestato Romanticismo non prima di aver prodotto a futura memoria un altro mostro sublime come il «Tell».
Ora, è chiaro a chiunque abbia avuto la santa pazienza di leggere fin qui che una «Semiramide» completamente soddisfacente non si è mai fatta e non si farà mai. Non sono riusciti a realizzare l’utopia il cristianesimo e il comunismo, figuriamoci se ci riesce un teatro d’opera. Alla Fenice però ci hanno provato con serietà, e il risultato è stato apprezzabile. A cominciare dalla direzione di Riccardo Frizza, molto incisiva (talvolta perfino troppo, qualche indugio in più nei momenti lirici forse non sarebbe guastato), molto sicura, ben calibrata e capace di restituire al primo Finale tutta la sua grandiosità tragica. A merito di Frizza va ascritta anche la scelta dell’integrale, opera completa fino all’ultimo recitativo dell’ultimo comprimario. Eroici Coro e Orchestra.
Semiramide è Jessica Pratt, che è sostanzialmente un soprano di coloratura dotato di un registro acuto saldissimo e, in generale, di un’ ottima tecnica. Il problema della Pratt come Regina di Babilonia è che canta bene quasi tutto, ma non crea quasi mai un personaggio. Ha chiaramente di Semiramide un’idea vittoriana (accentuata da un’incongrua pettinatura da lady bene alle terme di Tunbrige Wells), inzeppata di variazioni in acuto stilisticamente più che dubbie e ispirata chiaramente a quella della Sutherland.
Ma Dame Joan era talmente trascendentale nel suo virtuosismo da spostare il personaggio in un empireo metateatrale, da farne insomma una pura astrazione e così, solo così, funzionava. La Pratt non è a questi livelli e rimane su una poco convincente via di mezzo, anche perché il registro grave è fioco e la recitazione impacciata. Ma il vero peccato capitale sono i recitativi, moscissimi. La sua arringa a «prenci, popoli e magi» potrebbe convincere, al massimo, le socie del circolo della canasta. Insomma, la Pratt è la conferma che non esistono cattivi cantanti (lei poi è anche una buona cantante), ma solo cantanti che sbagliano repertorio.
Non a caso, il momento in cui risulta più convincente, o meno inerte, è il grande duetto con Assur. Perché Alex Esposito di teatro invece letteralmente deborda. L’interpretazione è quella già proposta a Monaco con Mariotti, un malvagio a tutto tondo, che a Venezia deambula con un bastone (una caduta durante le prova diventata un’idea - buona - di regia). Esposito riesce a dare senso alle colorature, peraltro molto precise e puntuali, e aggredisce i recitativi con una foga e una «cattiveria» forse, ripeto forse, perfino eccessiva. Nella grande scena del secondo atto è memorabile.
Arsace è Teresa Iervolino. Non ha un grande volume e la voce tende ad assottigliarsi nel passaggio fra i centri e gli acuti. Ma il timbro è molto bello e «giusto» per la parte, le agilità sicure e soprattutto espressive, toccanti certi ripiegamenti sconsolati, realizzati con una dolente mezzavoce. Nella cavatina stranamente non dà il meglio, ma il rondò del secondo atto è bellissimo. Aggiungerei che nella comprensione di questi personaggi siamo un po’ fuorviati dalla Horne, che beninteso abbiamo tutti adorato ma che ne faceva troppo dei «vincenti» a tutti i costi, all’americana, lasciando in ombra quella dimensione irrisolta e infelice che pure hanno, e che Iervolino riesce a rendere con grande sensibilità.
La prestazione più sorprendente, in ogni caso, è quella di Enea Scala. In Voltaire, Idreno non c’è. Ma Rossi e Rossini avevano in compagnia un tenore e bisognava farlo cantare. Si inventarono quindi un amoroso che, dal punto di vista drammaturgico, non esiste e, Introduzione e Finale primo a parte, non interagisce con alcuno. Canta soltanto, si fa per dire, due arie di trascendentale difficoltà, come una specie di jukebox umano: lo si attiva e inizia a sparare spaventosi sopracuti e sovrumane agilità. Nove tenori su dieci qui giocano di rimessa e cercano di limitare i danni.
Il decimo è appunto Scala che, vestito da divo di Bollywood, decide invece di buttarsi con folle spavalderia su questa parte pazzesca. Talvolta gli va male, non chiude le frasi per la necessità, letteralmente, di tirare il fiato, o gli acuti escono sporchi. Più spesso gli va bene e allora è eccitantissimo ascoltare una voce robusta volteggiare su e giù per il pentagramma come un acrobata senza rete. In più, l’allure scenica da playboy del Gange è irresistibile. Davvero bravissimo.
Detto che Simon Lim è un Oroe molto sonoro e che i comprimari se la cavano benissimo, è il turno della regia di Cecilia Ligorio. L’impressione è quella di uno spettacolo stimolante ma non completamente risolto. Alcuni momenti risultano meditati e, soprattutto, provati; altri appena abbozzati. In generale, a parte i raccapriccianti costumi del Coro, il secondo atto «buio» funziona molto meglio del primo «luminoso», più «recitato» e pieno di buone idee: una per tutte, Assur che all’inizio del duetto cerca di baciare Semiramide. In precedenza, si era vista una produzione di buona tenuta, elegante, che sembra fastosa senza esserlo davvero ma un po’ inerte.
A fare movimento provvedono cinque ballerine e quattro mimi, perché il coro è sostanzialmente fermo. E comunque qualche invenzione felice c’è, tipo Oroe cieco come un Tiresia babilonese e o l’ombra di Nino che qui appare in carne, ossa e pettorali. Nel complesso, una bella produzione che dà però l’idea che sarebbe stata necessaria qualche prova di più.
Nelle Sale Apollinee è esposta la partitura autografa dell’opera, sacra reliquia autenticata da Rossini di suoi pugno a Parigi nel 1864 e restaurata grazie a Valore Cultura di Generali. Purtroppo la presenza di una maschera mi ha impedito di baciare la teca (fra parentesi, segnalo che adesso in Santa Croce a Firenze la tomba di Rossini è circondata da un cordone che vieta di avvicinarsi, lasciare fiori, baciarla e piangerci sopra come si è sempre fatto. Toglieteci tutto, ma non i nostri feticismi...), ma c’è la possibilità si sfogliarla virtualmente. E chapeau una volta di più alla Fenice che ci ha ridato questo capolavoro nella sua totalizzante, utopistica, sublime grandiosità.
Gioacchino Rossini, ritratto-2TEATRO LA FENICE A VENEZIA