SGABELLO, CHITARRA E GRAN VOCE. TRA LE PIÙ BELLE DEL ROCK. CHRIS CORNELL, MARTEDÌ A MILANO E DOMANI A ROMA. SUBITO SOLD OUT. NELLA CAPITALE HA ABITATO PER SEI MESI ED ERA ORA CHE LA VIVESSE DA SOPRA UN PALCO
Simona Orlando per “Il Messaggero”
Sgabello, chitarra e gran voce. Tra le più belle del rock. Così Chris Cornell si presenta nel tour di Higher Truth, martedì a Milano e domani a Roma, Auditorium Parco della Musica. Subito sold out. Nella capitale ha abitato per sei mesi ed era ora che la vivesse da sopra un palco. In scena è da solo, o accompagnato dal violoncello, per oltre due ore delle meraviglie, tra cover di Dylan, Led Zeppelin, Beatles, e brani nati nelle sue tante mutazioni, dai Soundgarden, fabbri del grunge nei ’90 insieme a Nirvana e Pearl Jam, a Temple Of The Dog e Audioslave.
La sua rivisitazione di "Stay With Me Baby" è appena entrata nella colonna sonora della serie "Vinyl", fortemente voluta da Scorsese-Jagger. Ha venduto oltre 30 milioni di dischi e forgiato la categoria dei rocker che cantano “alla Cornell”, grazie a corde vocali benedette (nonostante gli anni tempestosi a tirarle all’aria), che rendono il live imperdibile. Una data è poca, per uno dei migliori lasciti di quel periodo.
Come sarà Higher Truth in acustico?
«Molto diverso dal disco ma scorre in modo naturale. Le mie canzoni nascono da sempre chitarra e voce. Per necessità, con i Soundgarden, componevo cose minimali, che poi diventavano sonicamente grandi sul palco o in studio. Adesso la mia è una scelta di essenzialità»
Lei ridà dignità alle cover, davvero maltrattate nei talent. Come le sceglie?
«Per la bellezza o perché sono legate ai ricordi. L’interpretazione le trasforma completamente. Quando Johhny Cash rifece la mia Rusty Cage fu un onore e una lezione su come una cover possa diventare originale. Fece un arrangiamento alla Cash, ridotto all’osso, e diede un suo senso alle mie parole. E’ praticamente sua. Così io ho fatto lo stesso con “Billie Jean” di Michael Jackson e altre canzoni in scaletta».
Cantando i vecchi brani non si stupisce di come, da ragazzini, si possano scrivere cose importanti?
«Ci sono artisti che hanno fatto capolavori a 18 anni. Io sono sbocciato verso i 23 e ho sempre pensato che il percorso per arrivare a diventare un songwriter sarebbe stato lunghissimo. Lo penso ancora. Invece, ad ogni disco dei Soundgarden, i critici scrivevano che eravamo molto cresciuti artisticamente. Non ne sono sicuro. Sono migliorato vocalmente, ma nei nostri primi provini c’è una sensibilità eccezionale».
Tipica dei giovani arrabbiati. Perciò il tour finanzia la sua fondazione benefica?
«La cosa più urgente sono gli adulti di domani, una nostra responsabilità. Così a Seattle ho individuato associazioni che aiutano bambini problematici, senza casa o assicurazione sanitaria. Per quelle strade sono stato un adolescente inquieto, pessimo a scuola e nello sport. Mi interessava solo la musica»
Gli Stones a Cuba hanno fatto notizia. Lei con gli Audioslave ci andò nel 2005.
«All’epoca era impossibile organizzare un concerto lì, soprattutto perché eravamo una band americana. Non capivo perché non ci provassero gruppi famosi come U2 e Rolling Stones, che già se lo potevano permettere. Di sicuro più di noi. Non avrebbero incontrato le stesse resistenze. Fu un incredibile scambio culturale, ci portarono nelle gallerie d’arte, in radio, sotto la statua di Lennon. Scoprimmo un paese molto attento alla cultura, i fan ci fecero sentire a casa. Ci tornerei volentieri»
Oggi non sarebbe tutto diverso?
«Eccome! Al tempo ci vietarono di annunciare lo show fino al giorno prima. Fidel diede l’ok all’ultimo minuto e fummo costretti a cancellare il concerto di Miami. Senza alcuna promozione, a L’Avana si presentarono in 64.000. Lottammo a lungo per mettere d’accordo le istituzioni americane e quelle cubane. Riuscirci fu un traguardo».
Riprenderà con i Soundgarden?
«Presto. La cosa bellissima è che i due progetti non si confondono mai. E’ rinfrescante tornare con la band, dopo un tour così introspettivo. Nel one man show si manifesta la mia identità, il gruppo è il risultato dell’identità di tutti. Sono fortunato, a 51 anni, a potermi permettere questa espansione creativa».
Com’è stato vivere a Roma?
«Ho iscritto i miei figli a scuola lì ed è stato eccitante, l’opposto della nuovissima Seattle, tutto meno veloce e più riflessivo. Forse perché con tanta bellezza attorno, devi avere il tempo di contemplarla. All’Italia sono molto legato. A fine anni ’80, per qualche strana ragione, fu la prima ad amare il nostro esordio “Ultramega Ok”. Fu la nostra prima esperienza di successo fuori America».
Andavate contro un sistema e ne siete diventati parte. E’ stato difficile accettarlo?
«Per noi, negli anni ’90, il successo era sinonimo di compromesso o mancanza di qualità. Quando ci toccò, entrammo in crisi. Poi ho capito che non potevamo sentirci in colpa, se la nostra musica piaceva a tanti. Finché sei onesto e ispirato, devi continuare a farla e non puoi controllare le conseguenze. Oggi penso che siamo stati fortunati, mi sono lasciato alle spalle le paranoie. Sono in una posizione privilegiata perché ho successo ma non al punto da dovermi compromettere. Ho trovato equilibrio fra soddisfazione e frustrazione e anche questa è la “verità alta” di cui canto nel mio disco».
JASON EVERMAN CON I SOUNDGARDEN