
1. CHE SOGNI HANNO I RAGAZZI DI OGGI? CHI LI INTERCETTA, CHI LI RAPPRESENTA? TRUMP! 2. SE C’È UN RISULTATO CHE SALTA AGLI OCCHI, DOPO LE PRESIDENZIALI AMERICANE, È CHE LE POPSTAR DI OGGI – DA MILEY CYRUS A LADY GAGA, DA RIHANNA A KATY PERRY - SONO SOCIALMENTE IRRILEVANTI
Simona Orlando per Dagospia
La politica dice della musica più di quanto la musica dice della politica. Se c’è un risultato che salta agli occhi, e alle orecchie, dopo le presidenziali americane, è che le popstar di oggi sono socialmente irrilevanti, incapaci di farsi portatrici o forgiatrici di un messaggio forte e condiviso.
C’è stato più di un periodo in cui la musica ha contato, addirittura cambiato la società, e non è quello attuale. Basti osservare lo squadrone di celebrità che ha spinto la candidatura della Clinton, ottenendo l’elezione di Trump. Un plotone di campioni da classifica, spacciatisi per infallibili, che ha falsato la percezione della realtà. La realtà - torna ad essere chiaro - non è quella in atto sul web e la popolarità è distante migliaia di schede dal popolo.
lady gaga sostiene hillary clinton
Lady Gaga, 65 milioni di follower, si è disperata da dentro la sua Rolls Royce blindata, poi ha manifestato sotto la Trump Tower, in posa plastica da copertina. Miley Cyrus, 50 milioni di seguaci su Facebook, vuole espatriare in Canada e intanto piange dalla sua megavilla di Malibu. Dagli U2 a Springsteen, tutti attaccavano il parruccone arancione, senza prenderlo troppo sul serio. Tralasciamo la patetica Madonna, che pur di essere ancora associata alle fantasie sessuali maschili, ha promesso fellatio di scambio.
Su 231 milioni di americani idonei al voto, hanno votato in 130 milioni. Presumibilmente, molti di loro sono fan dei suddetti combattenti per la libertà. La generazione millennial, quelli fra i 18 e i 29 anni che vanno a concerti e scaricano canzoni, ha votato Trump al 37%, ed è risultata meno interessata al voto democratico rispetto al 2012, quando Obama si beccò il 60%. L’Obama che, nel frattempo, più di ogni altro Presidente ha usato la musica per comunicare, ha portato i festival alla Casa Bianca, pubblicato la sua playlist, fatto salire sul pulpito gli strapotenti Jay Z e Beyoncé,
madonna per hillary con la lingua di fuori
Katy Perry, 94 milioni di follower su Twitter, ha partecipato ai comizi e girato un video completamente nuda a sostegno di Hillary, poi ha incassato la sconfitta dicendo che ora è pronta alla rivoluzione. Parola svuotata, mercificata, puro slogan pop. ‘Revolution’ è il titolo del disco dei Green Day anti-Trump, che sconvolgerà il costume quanto un tuffo in piscina. Così come “Anti” è il disco di Rihanna, soldatina pro-Clinton che contro il sistema al massimo butta lingerie di marca di cui è strapagata testimonial.
Diceva l’immenso Leonard Cohen, poeta davvero, per il quale la rivoluzione era innanzitutto personale, intima, quotidiana: «Lasciate la rivoluzione ai proprietari della rivoluzione. Essi sono come tutti gli altri proprietari: cercano un profitto. Nel coro della notte io cerco la mia libertà, come un uccello sul filo». E T. S. Eliot, che Cohen aveva letto e amato, avvisava: ”Non cada la tenebra fra l’idea e la realtà”. Ecco, un tempo la musica riusciva a trasformare un’idea in realtà.
A ricordarci quali mutazioni scatenò dal 1966 al 1970 c’è la mostra “You say you want a revolution?”, al Victoria & Albert Museum di Londra, un tracciato che lega la nascita della controcultura alla moderna Silicon Valley, stesso epicentro: San Francisco. Tra raduni rock e protesta, comuni e manuali della decrescita felice in stile “Whole Earth Catalog”, alla Stanford University si lavorava sui computer, fantasticando di un pianeta ultraconnesso e informato, che allora non prevedeva l’effetto isolamento e solitudine digitale.
katy perry vai a votare nudo se vuoi
‘Revolution’ riprende la canzone dei Beatles, che ribaltarono in concreto contenuti, forma e immagine. Per fare la rivoluzione bisogna sognare: è la base di partenza anche dei più pragmatici. E i ragazzi degli anni ’60-’70 hanno sognato moltissimo, realizzato meno di quanto proclamassero ma più di quanto si potesse fare senza armi in un pugno di calendari. Che sogni hanno i ragazzi di oggi? Chi li intercetta, chi li rappresenta?
In passato, non furono solo canzonette. Il blues e il jazz contribuirono a combattere la discriminazione razziale, il folk di Pete Seeger e derivati portò i piedi in piazza a marciare per i diritti civili e contro il Vietnam. Sono serviti il punk, il rap e il Live 8, che già sembrava più spettacolo che concerto, eppure creava partecipazione, senso di comunità, agitazione politica.
Oggi non si riesce a mettere su nemmeno un evento per la crisi umanitaria in Medio Oriente, che nei profili social affligge i cuori delle popstar, non i loro conti in banca. Non si riesce a riunire, a essere incisivi, spostare voti, trovare un inno. Il Nobel a Dylan, in quest’ottica, è uno spasmo di nostalgia.
katy perry tra hillary e bill clinton
Le canzoni non devono parlare di politica per essere politiche, e il vuoto organico delle recenti produzioni e dei loro autori, li rende del tutto ininfluenti. Gli artisti rilevanti li stiamo perdendo uno dietro l’altro. E non perché il 2016 sia colpito da una strana maledizione, ma perché gli anni ’60 e ’70 furono benedetti dalla rabbia creativa dell’arte, e una canzone nasceva come urgenza espressiva, non come possibilità di reddito.
I Rolling Stones hanno vietato a Trump di usare ‘You Can’t Always Get What You Want’ e Donald l’ha sparata a conclusione del discorso della vittoria. La furia di Jagger? Un tweet: “Forse mi inviteranno a cantarla il giorno dell’inaugurazione!». Il tono sarcastico si può spiegare solo immaginando che Sir Mick pregusti il risarcimento economico. Si rischia di cambiare il finale de "Gli uomini vuoti" di Eliot: «Questo è il modo in cui finisce il mondo. Non con uno scoppio ma con un cinguettio».