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PRONTI? IL FESTIVAL DI VENEZIA PARTE CON 'EVEREST': DOPO LE APERTURE CON 'GRAVITY' E 'BIRDMAN', BARBERA CI RIPROVA. MA QUI MANCA LA CREATIVITÀ DI CUARON E INARRITU - UN FILMONE DA 65 MILIONI, GRONDANTE SENTIMENTI E PIANTI MISCHIATI ALLA NEVE IN 3D E AI MORTI STECCHITI SULLA MONTAGNA. GRANDE MAESTRIA TECNICA, BELLE RIPRESE DI MONTAGNA, MA NON C'È MOLTO DEL CINEMA DA FESTIVAL. CAST MASCHILE, FEMMINE IN RUOLI MARGINALI

Marco Giusti per Dagospia

 

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Everest di Balthasar Kormakur

 

Biennale 2015. Si parte. Ieri notte tutti a vedere il film di Orson Welles ricostruito con mille frammenti, The Merchant of Venice, rarità assoluta del 1969, mai finito e senza sonoro, infatti per doppiarlo ci si è serviti di una incisione della stessa commedia di Shakespeare recitata da Welles al Mercury Theatre nel 1938 e della partitura di Angelo Francesco Lavagnino conservata dalle figlie del musiciste. Bello, raro, si era già visto in parte anni fa grazie a Mauro Bonanni e a Ciro Giorgini, ma non così bello come l’Othello in versione italiana che Welles nel 1951 avrebbe dovuto portare a Venezia e che non arrivò mai. Ieri sera si è visto anche questo in copia restaurata digitale. Capolavoro.

 

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Invece stamane tutti sull’Everest. Infatti, forte di film d’apertura un po’ montagne russe come Gravity e Birdman, il direttore del Festival Alberto Barbera ci riprova con un film estremo in 3D come Everest dell’islandese Balthasar Kormakur, già regista di 101 Reykiavik e del meno interessante 2 Guns. Solo che Balthasar Kormakur, che deve aver patito le pene dell’inferno per portare a termine un film come Everest, ci pare non avere la stessa creatività di messa in scena dei messicani Cuaron e Inarritu.

 

Ovvio che girare in uno studio virtuale lo spazio o mettere in piedi un piano sequenza all’interno di un teatro di New York non è la stessa cosa, in termini di difficoltà, di girare un film su una spettacolare storica scalata al monte più alto del mondo che in quel del 1996, grazie a una terribile bufera con valanghe, costò la vita a otto persone.

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Per l’occasione la Universal e Kormakur sono andati a riprendere montagne e nevi in mezzo mondo, dalle Alpi all’Islanda, da Schnastal agli studi di Cinecittà e di Pinewood a Londra dove sono state girate le scene più complesse impossibili da realizzare realmente a alta quota e dove è stato ricostruito il Campo Base (a Cinecittà). Ma soprattutto, mentre la seconda unità del film girava in Nepal, sedici sherpa sono morti mentre attrezzavano le piste.

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L’Everest, alta 8.848 metri, la cima più alta del mondo, può vantare ben 250 morti tra gli alpinisti e rocciatori che hanno provato a scalarla dal 1922 a oggi. Anche perché oltre gli 8000 metri non c’è più abbastanza ossigeno per respirare e qualsiasi variazione climatica o fatica può essere fatale. L’elenco degli scalatori morti, però, in qualche dimostra la grandezza umana della prova e fa di chi è rimasto lassù, morto congelato o precipitato in qualche burrone, una specie di eroe moderno.

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Così Rob Hall, Scott Fischer, Doug Hansen e gli altri che nel 1996 tentarono l’impresa, arrivarono in cima e nella discesa, colpiti dalla bufera, o non tornarono mai o ebbero forti difficoltà a arrivare al Campo base, sia che fossero provetti alpinisti sia che fossero dilettanti, vengono comunque visti da Kormakur con uno sguardo di ammirazione.

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Il film ricostruisce appunto in dettaglio l’operazione che due scalatori esperti come Rob Hall e Scott Fischer, interpretati da Jason Clarke e Jake Gyllenhall, tentarono nel 1996 portando su con loro un gruppo di alpinisti di varie nazionalità. Ognuno con un suo valido motivo per provare la salita, dal texano Beck Weathers, cioè Josh Brolin, allo scrittore Jon Krakaur, cioè Michael Kelly, al forte Guy Cottel di Sam Worthington, al russo Anatoli Boukrev, interpretato dall’islandese Ingvar Eggert Sigurosson.

 

Proprio dai libri sull’accaduto scritti da due sopravvissuti, Michael Kelly e Anatoli Boukrev, si sono basati gli sceneggiatori di Everest, William Nicholson e Steve Boufay, ma ci hanno lavorato anche Justin Isbell e Mark Meadoff, per raccontare la storia. Come nei vecchi film western americano con le missioni disperati, i protagonisti, vivi o morti che rimangano alla fine, sono tutti eroi.

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E le femmine hanno ruoli marginali. In questo caso c’è la mammina buona che aspetta i ragazzi al Campo Base, una palpitante Emily Watson, e le mogli in attesa da varie parti del mondo, come Robin Wright e Keira Knightley. Il film, però, è tutto nella scalata e nella terribile discesa. Ricostruite, va detto, con precisione e vigore, anche perché Everest, alla fine, è un filmone da 65 milioni di dollari che deve portare il pubblico al cinema, ma certo al di là della tecnica e delle belle riprese di montagne non vediamo granché di cinema da festival.

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Ma di solito Barbera coi film d’apertura ci prende, e quindi è più che probabile che questo Everest, per i miei gusti un po’ troppo filmone e grondante sentimenti e pianti mischiati alla neve in 3D e ai morti stecchiti sulla montagna, funzioni da più punti di vista. Certo, Keira Knightley col golfino pesante che parla al telefono col marito rimasto al gelo non è una grande immagine di cinema.

 

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