NELLA CAMERA ARDENTE DI D’AMBROSIO IL VERO FUNERALE ERA PER IL POOL DI “MANI PULITE” - DA UNA PARTE I “RESISTENTI” BORRELLI, COLOMBO E FRANCESCO GRECO, DEFILATO DI PIETRO TRATTATO COME UN REIETTO DAI SUOI EX COLLEGHI

Paolo Foschini per il "Corriere della Sera"

Il traffico in Corso di Porta Vittoria scorre tra clacson e passanti con l'indolente frenesia milanese di sempre. Da una parte della strada il Palazzo di Giustizia, col feretro di Gerardo D'Ambrosio che tre o quattrocento amici ed ex colleghi sono venuti a salutare per l'ultima volta. Dall'altra parte la chiesetta di San Pietro in Gessate dove la stessa piccola folla, tra poco, si sposterà facendo lo slalom tra le auto per ascoltare il prete che all'ex coordinatore di Mani Pulite darà l'ultima benedizione col Discorso della Montagna: «Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia...».

Ecco, ci sono dei funerali dove pare che i morti siano due. E non sempre il morto vero, quello che fa più male, è quello nella bara coperta di fiori. Se il funerale di D'Ambrosio celebrato ieri mattina a Milano ha emanato una tristezza rassegnata che solo chi c'era ha forse potuto cogliere fino in fondo il motivo è soprattutto questo.

Non è stato solo il funerale di «un uomo giusto», come tutti hanno tenuto a ricordare, ma la definitiva pietra tombale sulla memoria di un breve periodo che vent'anni fa - al di là delle tante riletture e rimozioni successive - sembrò illudere l'Italia che un cambiamento era possibile. O che era possibile sperarci, almeno. Periodo seppellito ieri dai suoi reduci. Alcuni ritrovatisi dopo davvero una vita, con tanta vecchiaia in più addosso e la stessa frase ripetuta l'uno all'altro per tutta la mattina: «Quanto tempo, eh?».

Non abbastanza, in realtà, per ricucire insieme coi ricordi anche certe vecchie ferite. Così ecco schierati da una parte i «resistenti» del pool Mani Pulite - l'ex procuratore capo Saverio Borrelli, 84 anni fra dieci giorni eppure ritto sull'attenti accanto al feretro per mezzora filata, e accanto a lui l'ex pm Gherardo Colombo tornato in toga per l'occasione (oltre che ambasciatore di Piercamillo Davigo, bloccato a Roma da un'udienza in Cassazione), e Francesco Greco, e Ilda Boccassini, e Paolo Ielo, e poi il procuratore attuale Edmondo Bruti Liberati, e tanti altri magistrati, e avvocati, e cancellieri, e poliziotti e carabinieri in borghese - mentre soltanto più indietro, in mezzo alla folla della camera ardente ma poi neanche più in chiesa, c'è quel Tonino Di Pietro per il quale ventidue anni fa, davanti a questo stesso Palazzo, sfilavano cortei di sostegno e che ieri viene quasi salutato a fatica.

«L'esperienza del Pool dimostrò che uniti si vince», dichiara davanti alle tv. Qualcuno lì accanto non riesce a non ricordare di quando Borrelli, a proposito di unità, bollò le sue dimissioni da quel medesimo Pool come «defezione, e sottolineo defezione». Ieri i due si sono stretti la mano, forse per la prima volta da allora. Cinque secondi, un sorriso, qualche parola che nessuno ha sentito. Subito dopo Di Pietro è sparito.

L'unico discorso ufficiale prima di spostarsi tutti in chiesa lo pronuncia il presidente del tribunale, Livia Pomodoro: «In un'epoca che ha conosciuto una forte mediatizzazione e personalizzazione del ruolo, D'Ambrosio ci ha offerto un'immagine del magistrato consapevole della delicatezza della propria funzione e l'insegnamento di chi crede in una giustizia rigorosa e giusta».

Pochi gli esponenti del mondo della politica. C'è Pietro Grasso, presidente del Senato, l'assemblea in cui D'Ambrosio aveva investito i suoi ultimi anni d'impegno: «Intransigente con se stesso e con gli altri», lo ricorderà qualche ora dopo a Palazzo Madama. C'è Pierluigi Bersani: «Una bella persona che ha sempre fatto il suo dovere». C'è Rosy Bindi: «Una voce equilibrata e poco ascoltata». C'è il sindaco Giuliano Pisapia: «Un grande magistrato e un maestro di vita». Pochi altri. Nessuno di centrodestra.

C'è invece Sergio Cusani, in fondo alla chiesa, forse l'imputato più famoso tra gli inquisiti di allora. E seduto in disparte su una panca, presenza forse più commovente di tutte anche perché tra le pochissime espresse questa volta dalla cosiddetta «società civile», c'è Pasquale Padovano con tutte le sue cicatrici: l'unico sopravvissuto del disastro di Linate che nel 2001 costò la vita a 118 persone.

«Non potevo non venire qui oggi», dice.
Il sacerdote don Enrico Magnani conclude con le parole della fede: «Gerardo D'Ambrosio ha finito la sua vita terrena, ma ne comincia una nuova». Quel che con questo funerale sembra veramente finito, come si diceva, è qualcosa d'altro. E non c'è tanto da andare in pace.

 

 

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