GIUSTIZIA ALLA SICILIANA - GRAZIE ANCHE ALLE RIVELAZIONI DEL PENTITO SPATUZZA, DOPO 17 ANNI (17) IN CARCERE VENGONO RILASCIATI I 7 UOMINI, IN ALCUNI CASI MAFIOSI CONCLAMATI: NON UCCISERO BORSELLINO (ALLORA CHI È STATO?) - SCARCERATO ANCHE IL PENTITO SCARANTINO CHE LI FECE CONDANNARE CON LE SUE RIVELAZIONI PILOTATE (TRE POLIZIOTTI INDAGATI COME ISPIRATORI) - NEL TORBIDO INTRECCIO TRA STATO E MAFIA, VANNO ANCORA IDENTIFICATE LE RESPONSABILITÀ ISTITUZIONALI, DEPISTAGGI E DEPISTATORI, UOMINI DEI SERVIZI E MANOVRATORI…
Riccardo Arena per "la Stampa"
Uno è uscito e ha detto di non sapere come pagare i conti del bar: «Quando finii in carcere - ha spiegato Gaetano Murana - c'erano ancora le lire. Gli euro non li conosco». E che dire di Salvatore Profeta? Lo inchiodò suo cognato, Vincenzo Scarantino: era in cella dal 1993. In cella al 41 bis, il regime duro che, dicono, ne fa per due del carcere normale. Riemergono a uno a uno dagli istituti di pena speciali disseminati in tutta Italia: sono gli stragisti, anzi gli ex stragisti di via D'Amelio. Sono sette (l'ottavo, Gaetano Scotto, deve finire di scontare una pena per altri fatti) e in alcuni casi sono mafiosi conclamati. Ma la strage di via D'Amelio, sei morti, il giudice Paolo Borsellino e i cinque agenti della scorta, non l'hanno commessa loro.
Errore giudiziario, si chiama. Non ancora accertato con un processo di revisione delle condanne passate in giudicato: prima bisogna che i calunniatori vengano condannati con sentenza definitiva. Di fronte a questo, ieri la Corte d'appello di Catania ha comunque ordinato le scarcerazioni. I tempi del nuovo processo saranno lunghi, sono in corso altre indagini per accertare ulteriori responsabilità di mafiosi e di soggetti istituzionali, anche di eventuali «suggeritori», e in un quadro del genere non si può consentire che dei presunti innocenti rimangano ancora in carcere.
Fuori dunque Murana, Profeta, Cosimo Vernengo, Giuseppe La Mattina, Giuseppe Urso e Natale Gambino. Oltre allo stesso falso pentito Scarantino, ora accusato però di calunnia e autocalunnia. Tutti hanno chiamato i loro difensori, gli avvocati Giuseppe Scozzola, Rosalba Di Gregorio, Salvatore Petronio. Che parlano di «vergogna» e ricordano che le loro affermazioni e le loro tesi su Scarantino, indicato come pentito pilotato, non erano mai state prese in considerazione fino in Cassazione.
C'è voluto Gaspare Spatuzza e le sue dichiarazioni, per consentire di riaprire tutto. Assieme a Fabio Tranchina ha scagionato il gruppo mafioso del quartiere palermitano della Guadagna, che faceva capo a Pietro Aglieri, e ha indicato come esecutori materiali gli uomini di Brancaccio, di Giuseppe Graviano, legato - sempre secondo Spatuzza all'ambiente di Milano e in contatto con Marcello Dell'Utri.
Non tutta la storia è stata riscritta dagli inquirenti, che cercano ancora responsabilità istituzionali, se ce ne sono, e cercano di individuare depistaggi e depistatori, uomini dei Servizi e manovratori. Sono indagati tre poliziotti, sempre per calunnia, come presunti ispiratori di Scarantino e degli altri due calunniatori confessi, Salvatore Candura e Francesco Andriotta. Ma c'è anche la torbida vicenda della trattativa fra Stato e mafia.
Nelle carte inviate a Catania per la revisione, il procuratore generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato e il pool coordinato dal procuratore Sergio Lari indicano una serie di indizi che portano a dire come esponenti politici di vertice dell'epoca sapessero, di questi presunti contatti tra mafia e Stato, diretti a far cessare la stagione delle stragi. Ci sono state una serie di «amnesie di Stato»: nessuno ricordava.
Ma di comportamenti che possano interessare in un processo penale, per ottenere una condanna, non ne emergono. Ci sono sospetti, dubbi, indizi. Perché allora c'era un'esigenza, quella di «fermare lo stragismo» e lo Stato si mostrò debole. Coloro che avevano le leve del potere in mano, primo fra tutti l'allora ministro degli Interni Nicola Mancino, seppero della trattativa. Un «quadro desolante», da cui tuttavia non emergono «responsabilità penali di uomini politici allora al potere».
Dato per certo quel che avvenne tra Capaci e via D'Amelio, l'avvio di contatti con Vito Ciancimino da parte di uomini delle Istituzioni come il colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno, c'è da capire quel che avvenne. Per i magistrati nisseni Paolo Borsellino seppe che dopo la fine di Giovanni Falcone era stata intavolata una trattativa e diventò - o venne rappresentato - come un ostacolo da far saltare.
Mancino era stato indicato da Giovanni Brusca come il «terminale della trattativa» e il destinatario finale del «papello», il documento con cui Totò Riina avrebbe elencato le richieste di Cosa nostra. Indizi vi sono anche per un altro ex ministro degli Interni, Virginio Rognoni, che potrebbe avere avuto consapevolezza. Ma il quadro probatorio è contraddittorio.
LA STRAGE DI VIA D AMELIO IN CUI MORI BORSELLINO IL PROCURATORE SERGIO LARI IL GIP ROBERTO SCARPINATO graviano filippo GASPARE SPATUZZA paolo borsellino lapMARIO MORIVito Ciancimino