FLOP IN THE USA – I PRIMI DISASTROSI CENTO GIORNI DI “OBAMA II” TRA LEGGE SULLE ARMI, SIRIA E RIFORMA SANITARIA

Antonio Carlucci per "l'Espresso"

Jonathan Karl, il corrispondente della televisione Abc alla Casa Bianca, ha fatto una domanda molto breve, molto semplice e molto diretta. Al presidente ha ricordato che nel giro di poche settimane il Senato degli Stati Uniti ha affondato l'ipotesi di una legge sulla vendita di armi con più controlli, il Congresso nella sua totalità ha ignorato i suoi appelli a evitare drammatici tagli automatici alla spesa pubblica e 92 deputati democratici hanno fatto spallucce alla minaccia di veto presidenziale su una legge sulla difesa dagli attacchi via Internet sgradita a Obama.

Premessa per chiedere: «Signor presidente, ritiene di avere ancora la forza di far approvare la sua agenda politica dal Congresso?». Barack Obama ha fissato per un attimo il giornalista di Abc, ha socchiuso gli occhi e poi ha cominciato a rispondere allargandosi in un sorriso: «Se la metti così, Jonathan, forse dovrei fare le valigie e tornare a casa a Chicago. Penso, come disse Mark Twain, che in questo momento le voci sulla mia scomparsa politica siano un tantino esagerate».

Bel modo di festeggiare i primi cento giorni del secondo mandato alla Casa Bianca. Il presidente degli Stati Uniti costretto a dire di essere ancora vivo e vegeto (politicamente, si intende). A doversi difendere, sia pure con il sorriso sulle labbra, dall'accusa di non essere in grado di guidare la super potenza perché il Congresso va tranquillamente per la sua strada comportandosi come se alla Casa Bianca ci fosse un anziano brontolone che parla, strepita, protesta, ma alla fine non ha gli strumenti per affermare la sua volontà.

L'occasione per dire che il presidente è ancora vivo e che non ha perso il controllo dell'agenda di governo è arrivata proprio nel momento in cui una grossa grana che cova sotto la cenere da ormai molti mesi è tornata di prepotente attualità: la guerra civile in Siria, lo scontro sanguinoso tra i ribelli divisi in più fazioni, compresa un'estremista di ispirazione islamica radicale, e il regime di Bashir Assad, con gli Stati Uniti dalla parte dei ribelli e con la linea rossa dell'uso delle armi chimiche a obbligare Washington a barcamenarsi tra le dichiarazioni di sostegno ai ribelli e la paura di infilarsi in una trappola.

Obama forse riteneva di parlare solo di guerra e Medio Oriente e aveva pronte le sue risposte:
«Ho chiesto al Pentagono e all'intelligence di preparare le diverse opzioni che possono essere disponibili». Ma la crisi siriana è arrivata come ultima ciliegina sulla torta delle difficoltà del presidente, che non riguardano solo le leggi da approvare e la crisi in Medio Oriente.

A rendere il cammino scivoloso ci sono storie in rapida evoluzione come le audizioni al Congresso sulla uccisione dell'ambasciatore Usa in Libia a settembre del 2012 e il comportamento iper zelante dell'Irs, l'agenzia delle tasse federali, nei confronti di uomini e organizzazioni degli anti fisco Tea Party per ragioni inerenti alle agevolazioni fiscali di cui godono i gruppi di ispirazione politica.

Che il presidente attraversi una fase in cui appare incapace di suscitare l'approvazione bipartisan o largamente maggioritaria del Congresso delle sue proposte politiche, è ormai un'opinione fortemente radicata a Washington. A destra come a sinistra, tra i repubblicani come tra i democratici. Anche commentatori di diversa estrazione politica e culturale si ritrovano d'accordo sul giudizio finale, pur se ci arrivano percorrendo strade diverse. Dana Milbank, editorialista liberal del "Washington Post", non fa sconti a Barack Obama.

Si dice impressionato da una serie di affermazioni del presidente tutte in difesa: la gestione delle informazioni tra le agenzie di intelligence che «è materia difficile», la chiusura della prigione per sospetti terroristi di Guantanamo che «è un caso complicato da gestire», i governatori repubblicani contro l'attuazione della riforma sanitaria che «è diventata più dura da portare a termine», la stessa questione siriana che «è un problema pieno di difficoltà».

Milbank ha iniziato la sua riflessione sullo stato della Casa Bianca così: «Non è mai un buon segno quando un presidente si sente obbligato ad assicurare al pubblico che è ancora vivo». E ha concluso con queste parole: «Una guida energica è il modo di resuscitare una presidenza moribonda». Come a dire, sveglia presidente.

Democratici liberal ipercritici e capaci di vedere soltanto il bicchiere mezzo vuoto? È accaduto e accadrà ancora, ma quando il loro punto di vista coincide con quello dei conservatori vuol dire che qualcosa davvero non va. Prendiamo Peggy Noonan, autrice dei discorsi dell'ex presidente Ronald Reagan, titolare di una rubrica settimanale sul "Wall Street Journal": sprizza felicità da ogni poro perché Obama «sta scomparendo, non riuscendo a essere leader, non riuscendo a sfondare e a dimostrare di non essere alla mercé degli eventi ma a determinarli». E tutto questo accade mentre «i repubblicani non fanno opposizione dopo la sua rielezione e i democratici non lo appoggiano più».

Se si ripercorrono gli eventi degli ultimi 100 giorni, appare chiara la fotografia di quanto accaduto dopo la rielezione di Obama, con la Casa Bianca che non riesce a farsi ascoltare dal Congresso e il Parlamento tutto intento a tenere a distanza il presidente e a farlo vivere in uno splendido isolamento politico.

Dopo la strage di dicembre 2012 nella scuola di Newton, in Connecticut, con 26 morti, Obama ha lanciato una campagna per arrivare a una nuova legge che aumentasse i controlli per chi intenda acquistare un'arma tanto efficace da guadagnare il 52 per cento dei consensi degli americani: sembrava che una legge federale sul tema potesse essere approvata in poco tempo. Ma il 17 aprile, al momento del voto, una pattuglia di senatori democratici ha cambiato idea e ha fatto mancare i 60 sì che significavano la corsia preferenziale per approvare le nuove norme.

Altra maggioranza trasversale anti Obama si è manifestata su una nuova legislazione volta a rafforzare le strutture federali contro gli attacchi via Internet: al Congresso è in discussione una legge che a Obama non piace e 92 deputati democratici hanno votato con i repubblicani sfidando la Casa Bianca che aveva annunciato il veto se le norme fossero state approvate.

Se poi non è il Congresso a vanificare i piani del Commander in Chief ci sono i molti governatori repubblicani che stanno apertamente osteggiando la fase finale della riforma sanitaria che prevede la vendita di assicurazioni ai 38 milioni di americani ancora privi. E vedremo che cosa potrà accadere nelle prossime settimane quando arriverà in Parlamento l'ipotesi di riformare tutta la materia dell'immigrazione: la legge è il frutto del lavoro bipartisan di quattro democratici e quattro repubblicani e ruota intorno all'asse che prevede confini sicuri per bloccare l'immigrazione clandestina e un percorso per dare la cittadinanza agli 11 milioni di irregolari che vivono, lavorano, studiano e pagano le tasse negli Stati Uniti. Già si sente in lontananza il rullare dei tamburi di guerra di chi alla parola immigrato mette mano alla colt o si avvolge nella bandiera a stelle e strisce.

Eppure il secondo (e ultimo) mandato presidenziale per molti anni è stato identificato come quello in cui i presidenti degli Stati Uniti possono con più facilità affermare la loro agenda politica perché non più legati alla necessità di una nuova campagna elettorale.

Ma le cose stanno cambiando visto che negli ultimi 90 anni molti presidenti hanno avuto seri problemi soprattutto dopo la rielezione: Harry Truman e Lyndon B. Johnson, rispettivamente le guerre di Corea e del Vietnam, Richard Nixon lo scandalo del Watergate, Ronald Reagan le vendite segrete di armi ai guerriglieri pro Usa del Nicaragua, Bill Clinton lo scandalo sessuale con la stagista Monica Lewinsky, George W. Bush l'intervento tartaruga a seguito dell'uragano Katrina e la crisi finanziaria del 2008. Barack Obama, al momento di cominciare la seconda presidenza, aveva apertamente riconosciuto questa moderna tendenza, ma si era detto in grado di contrastarla.

Il caso del primo presidente nero degli Stati Uniti sembra comunque molto più legato alla sua agenda politica e al rapporto personale con il Congresso (alla Camera la maggioranza è repubblicana, al Senato democratica) che non a fattori esterni. All'orizzonte, 4 novembre 2014, ci sono le cosiddette elezioni di midterm che serviranno a rinnovare interamente la Camera (435 seggi) e un terzo del Senato: i deputati in carica repubblicani vogliono dimostrare di aver combattuto la politica della Casa Bianca senza mai denunciare cedimenti, i rappresentanti democratici hanno il problema di non essere scavalcati né a destra né a sinistra nei loro collegi in vista delle primarie e dunque tendono a seguire e non a guidare a seconda dei temi il loro elettorato e finiscono per occuparsi solo di piccole questioni legate al territorio.

Ma c'è qualcosa che va oltre la gestione quotidiana della politica o degli interessi dei singoli parlamentari nel complicato rapporto Casa Bianca-Congresso. È qualcosa che fa sentire i parlamentari lontani dal potere di Pennsylvania Avenue, pronti a lamentarsi a ogni occasione se non si sentono coccolati, invitati, coinvolti direttamente dal presidente. È uno stato d'animo che tocca soprattuto i democratici e che ha fatto diventare un punto sensibile e di discussione perfino la passione di Obama per il golf.

Quando gioca di solito lo fa con le stesse persone, che non sono parlamentari, finanzieri, vip del mondo dello spettacolo, ma il direttore dell'ufficio viaggi della Casa Bianca piuttosto che funzionari di seconda fila ma appassionati golfisti. Nelle tre uniche occasioni in cui è capitato che Obama utilizzasse un pomeriggio sui fairways per ragioni molto politiche e poco sportive tra deputati e senatori non invitati c'erano visi lunghi e commenti poco gradevoli.

L'ultima volta è accaduto lunedì 6 maggio quando il presidente ha giocato con due senatori repubblicani e un democratico sul campo della base militare dell'aeronautica di Andrews. Il presidente ha perso e non si è ben capito se i tre parlamentari abbiano comunque deciso di aiutarlo a portare avanti i suoi progetti politici, nonostante il privilegio di aver potuto condividere con lui qualche ora di svago.

 

HILLARY CLINTON E BARACK OBAMA OBAMA E HILLARY CLINTONBOEHNER OBAMAObama con Boehneradam lanza killer di newtown connecticut STRAGE DI BOSTON STRAGE DI BOSTON CHRIS STEVENS MENTRE INAUGURA LA SEDE CONSOLARE DI BENGASI ATTACCATA DAGLI ISLAMICI BENGASI Internal Revenue Service IRS IL FISCO AMERICANO IRS INTERNAL REVENUE SERVICE IL FISCO AMERICANO IL PALAZZO DELL IRS IL FISCO AMERICANO Associated Press Logo

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