E KUNG (OBBLIGATORIO) FU! IN CINA LE ARTI MARZIALI DIVENTANO MATERIE DA STUDIARE A SCUOLA

Giampaolo Visetti per "la Repubblica"

La Cina vuole restare cinese e per riuscirci assesta un altro duro colpo all'Occidente: arti marziali obbligatorie a scuola, per piegare il mito di basket, football e perfino dell'ex borghese tennis. Dopo decenni di assalti, respinti dai rivoluzionari di Mao attraverso l'imposizione del proletario pingpong quale sport delle masse rosse, Pechino cede alla tentazione del ritorno alla grandezza imperiale.

L'amministrazione generale del Wushu, termine che in mandarino indica gli antichi combattimenti a corpo libero, ha proposto che il Kung Fu entri tra le materie insegnate negli istituti primari e secondari.

Il ministero dello Sport si è spinto più in là, augurandosi che acceda addirittura alla valutazione dell'esame per l'accesso all'università. Chi risulterà scarso nei combattimenti zen ideati nel tempio di Shaolin 1500 anni fa, non potrà diventare un colletto bianco. E' un altro pezzo di contro-rivoluzione, ma non paragonabile ad un calcio obbligatorio nelle scuole britanniche, o a un test di pallone per poter frequentare giurisprudenza a Cambridge: per i giovani cinesi l'imposizione dell'ora di Karate non è infatti una buona notizia.

Tutti adorano i film con Bruce Lee, Jet Li e Jackie Chan ma se dal divano bisogna passare ai fatti non c'è partita. La generazione dei figli unici non ci pensa nemmeno, a confrontarsi con la disciplina delle arti marziali. Molto sudore, soldi e fama zero, come con la lotta greco-romana in Italia. Per sgranchirsi i muscoli i "piccoli principi" scelgono, senza tentennare, gli spettacoli satellitari con cui trascorrono la sera: l'Nba americana, la Premier League inglese, la terra rossa del Roland Garros e addirittura gli ultra-capitalisti green dei golf giapponesi.

Miti globali, sogni di successo, un po' di footing e tanto merchandising da centro commerciale. Un fisico smarrimento d'identità, eccessivo anche per l'immagine riformista della leadership comunista, tacitamente impegnata a seppellire il Grande Timoniere. Così, per riportare i suoi eredi sulla retta via dell'Oriente, Pechino inaugura la repressione sportiva e si appresta ad imporre ad allievi e professori una delle rare leggende cinesi capace di far innamorare proprio quell'Occidente di cui teme la seduzione.

Per la nuova super-potenza del pianeta il recupero delle tradizioni secolari cancellate dalla rivoluzione, così da contendere agli Usa anche l'egemonia culturale, non è solo un cedimento nazionalista. Dietro l'obbligo di Kung Fu, trapela una scelta politica più sofisticata. I media di Stato, colto l'ordine delle autorità, esaltano il Wushu quale simbolo della Cina del futuro per la capacità di «rivelare il segreto di vincere smettendo di combattere».

Un miliardo e mezzo di adepti delle arti marziali, icona di una forza equilibrata, controllata e tranquilla, sono la risposta che i signori della Città Proibita intendono contrapporre alla violenza e alla competitività esasperata trasmesse dalla civiltà euro-americana.

«Il Kung Fu - ha detto il famoso maestro Lang Rongbiao al Quotidiano del Popolo - è una filosofia che esclude il combattimento come soluzione, mentre richiede mente e cuore pacifici». Grazia e silenzio, il contrario dello sport quale sfida assordante, passione da occidentali senza più traguardi.

 

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