VIVA L’ITALIA! IL MODO MIGLIORE PER ONORARE L’ANNIVERSARIO DELLA STRAGE DI VIA D’AMELIO E’ FARSI “SCAPPARE” VINCENZO SCARANTINO! - LA DIA HA PERSO LE SUE TRACCE DA VENTI GIORNI - “ENZINO”, L’UOMO CHIAVE DEI MISTERI DI VIA D’AMELIO, ERA LIBERO ANCHE SE INDAGATO PER CALUNNIA - SBUGIARDATO DA SPATUZZA FINI’ IN UN CONVENTO - SCARICATO DALLA FAMIGLIA, CAMPAVA DI ELEMOSINA NEL NORD ITALIA - OVUNQUE SPUNTA IL SUO NOME, SI SENTE PUZZA DI “SERVIZIETTI”…

Attilio Bolzoni e Francesco Viviano per "la Repubblica"

È disperso. Non si trova più. A vent'anni esatti dalla strage che ha falsamente confessato di avere fatto, Vincenzo Scarantino è scomparso. Da quindici giorni i suoi due telefoni cellulari squillano non risponde più al funzionario della Dia con il quale è rimasto in contatto per la sua sopravvivenza. L'uomo chiave dei misteri di via Mariano D'Amelio, finto pentito costruito in laboratorio proprio in mezzo alla trattativa fra Stato e mafia, è diventato un fantasma.

É dai primi giorni di luglio che ha improvvisamente abbandonato la casa dove abitava dall'ottobre dell'anno scorso, quando le sue dichiarazioni fasulle sull'uccisione di Paolo Borsellino hanno portato alla revisione del processo per il massacro del 19 luglio 1992 e alla scarcerazione di sette imputati condannati ingiustamente all'ergastolo. E' tornato libero anche lui, indagato per calunnia ma libero, fuori dal programma di protezione riservato ai collaboratori di giustizia, solo, senza un lavoro, senza un tetto, senza un'altra identità dietro la quale nascondersi.

Così Vincenzo Scarantino, «Enzino», criminale sbandato della borgata palermitana della Guadagna, «malacarne» senza quarti di nobiltà mafiosa, è stato dirottato per pietà in un rifugio - una struttura religiosa del Nord Italia - dove ha passato nove mesi d'inferno. Ripudiato dalla moglie, dalla madre, ripudiato dai suoi fratelli, Scarantino ha minacciato più volte il suicidio campando di elemosina alla periferia di una grande città. Da lì, due settimane fa, se n'è andato senza lasciare tracce.

L'hanno cercato i giudici di Caltanissetta, l'hanno cercato i poliziotti della direzione investigativa antimafia ma senza esito. Inghiottito nel vuoto. «Vincenzo Scarantino è un libero cittadino che può andare dove vuole, però un fatto certo è che non si trova più nella casa che gli era stata trovata e adesso non abbiamo idea di dove possa essere finito», dice il procuratore capo della repubblica di Caltanissetta Sergio Lari, il magistrato che ha scoperto la macchinazione sbirresca che aveva - proprio attraverso le ricostruzione di Vincenzo Scarantino - depistato le indagini sulla morte di Paolo Borsellino.

Per anni «Enzino» aveva raccontato particolari sulla strage, poi ha ritrattato, poi ancora ha confermato le sue prime confessioni. Fino a quando è arrivato un altro pentito - Gaspare Spatuzza - che l'ha sbugiardato. Da quel momento è iniziato un nuovo calvario per il picciotto della Guadagna, uscito di scena da uno dei grandi misteri d'Italia e praticamente «internato» in un convento per sfuggire a ritorsioni.

«Gli può essere accaduto tutto e niente», risponde uno dei magistrati di Caltanissetta che ha raccolto anche la sua verità sulle torture subite per fargli confessare la strage che non aveva fatto. Nei nove mesi passati «al riparo» nel Nord Italia telefonava anche due volte al giorno al funzionario della Dia che l'aveva in qualche modo in consegna per dargli un po' d'aiuto, per non lasciarlo solo e disperato. Poi la decisione di sparire. Di sua volonta? Per paura di una vendetta? «E chi lo sa?», dicono a Caltanissetta. Chissà quando riapparirà e se riapparirà, chissa dove e con quale altra «verità».

L'ultima volta che era stato ascoltato dai pm che indagano sul tritolo di via D'Amelio aveva svelato una spaventosa versione dei fatti, di come i poliziotti del «Gruppo Falcone Borsellino » - il centro d'indagine sulle stragi - comandato dal questore Arnaldo La Barbera l'avevano costretto ad autoaccusarsi. Così aveva iniziato il suo racconto: «Io non sapevo neanche dov'era via D'Amelio. Ho parlato solo per paura: mi torturavano, mi picchiavano, mi facevano morire di fame».

Scarantino aveva denunciato una Guantanamo italiana prima di Guantanamo. Era il 24 giugno del 1994 quando lui ha deciso di vuotare il sacco su via d'Amelio, indicando i nomi di tutti gli attentatori e accusandosi di avere rubato l'auto servita per la strage. Dirà diciassette anni dopo: «L'ho fatto perché mi minacciavano, per non farmi mangiare mi facevano trovare mosche nella pasta, orinavano nel mio cibo, mi fecero credere che ero malato di Aids, mi puntavano contro la pistola, di notte mi portavano nudo fuori dalla cella...».

Denunce - mai provate - contro poliziotti. Denunce che però hanno portato prima alla sua ritrattazione e poi alla scoperta dei veri esecutori della strage. Altri mafiosi. E altri complici. La sparizione di queste settimane di Scarantino - comunque sia, scomparso spontaneamente o costretto - diventa un mistero nel mistero. Lui è «bruciato» per le indagini sul massacro del 19 luglio del 1992, ma ci sono ancora molti «casi» siciliani legati a questo balordo scagliato nelle indagini sulle stragi per sabotarle mentre erano in corso accordi fra Stato e mafia per fermare le bombe.

Negli ultimi mesi si è scoperto che qualcuno - alla squadra mobile di Palermo - aveva tentato di lanciare in scena Vincenzo Scarantino anche tre anni prima dell'estate di Capaci e di via D'Amelio. Il 5 agosto del 1989, in un paese vicino a Palermo due uomini avevano ucciso il poliziotto Nino Agostino e sua moglie Ida. Un omicidio mai risolto. Un altro delitto segnato da tanti depistaggi. Fin dall'inizio.

Qualche giorno prima dell'esecuzione due ragazzi si presentarono dal padre di Nino, Vincenzo, chiedendo notizie del figlio e qualificandosi come agenti di polizia. Poi l'omicidio. Interrogato il 9 agosto del 1989, al padre di Nino venne chiesto di riconoscere fra sette foto segnaletiche quei due ragazzi che cercavano suo figlio. Una di quelle foto ritraeva proprio Vincenzo Scarantino.

Che non era un poliziotto, era già il balordo di borgata che avremmo conosciuto qualche anno dopo. Ma alla squadra mobile di Palermo, come si dice in siciliano, avevano già «vestito il pupo»: avevano già pronto un colpevole anche per l'uccisione di Nino Agostino e di sua moglie Ida. Il picciotto della Guadagna era già in una lista di pregiudicati da sacrificare per coprire i veri colpevoli di certi delitti.

 

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