KING KONG PECHINO METTE ALL’ANGOLO LE AMBIZIONI DEMOCRATICHE DI HONG KONG: O S’ADEGUA AL REGIME CINESE O SARÀ SEPOLTA A FAVORE DI SHANGAI

Giampaolo Visetti per "La Repubblica"

Tra Shanghai ed Hong Kong scoppia la guerra del business e Pechino minaccia l'ex colonia britannica di privarla del ruolo di capitale finanziaria dell'Asia. Hong Kong, ritornata sotto il controllo cinese nel 1997, è oggi l'economia più competitiva del mondo, oltre che la prima destinazione degli investimenti stranieri in Oriente. Un ambìto paradiso fiscale, sede di 800 miliardari, in lotta solo con l'indipendente Singapore. Per la Cina si rivela però anche una spina nel fianco più dolorosa del previsto.

Il modello «un Paese due sistemi», garantito fino al 2047 e ipotizzato come soluzione anche per Taiwan, non smorza le ambizioni democratiche dei 7 milioni di abitanti. L'anniversario della fine del dominio inglese è celebrato da manifestazioni sempre più grandi a favore di libertà d'espressione, diritti umani e iniziativa privata. Ogni anno una folla enorme ricorda la strage di piazza Tiananmen e si mobilita a favore del Tibet.

Ora la tensione sale in vista delle elezioni municipali del 2017, con i residenti che pretendono venga rispettata la promessa del primo voto libero e a suffragio universale. Per la Cina è un appuntamento cruciale e tra i nuovi leader di Pechino la tensione è al massimo. Il potere teme che consentire alla democrazia occidentale di riconquistare la sua Svizzera asiatica significhi destabilizzare la nazione: un colpo fatale al regime del partito comunista. Londra si è schierata apertamente con i democratici facendo infuriare Pechino, che ha accusato le «potenze straniere » di «infiltrare spie» all'ombra del Victoria Peak per «seminare disordini» anche sulla terra ferma.

Negli ultimi dieci anni la bomba- Hong Kong è stata congelata, ma con l'ascesa al potere di Xi Jinping e Li Keqiang lo stallo è finito. Pechino ha deciso di anticipare
il caos e per riuscirci schiera sul fronte la potenza di Shanghai. Domenica 29 aprirà qui la prima "zona di libero scambio" del Paese, che nel giro di tre anni promette di trasformare la metropoli nel più ricco hub degli affari in Oriente. In un'area di 30 chilometri quadrati, che comprende il nuovo distretto finanziario di Pudong, le attività economiche saranno liberalizzate.

Gli scambi commerciali non subiranno più dazi e dogana, verrà introdotta la piena convertibilità dello yuan e dominerà il libero scambio di beni, titoli e valuta. Una rivoluzione tesa ad elevare la Borsa di Shanghai al livello di quelle di Londra e New York. Per attirare una stabile comunità internazionale, Pechino accetta perfino di aprire la libera navigazione su Internet, compresa quella sui social network, a partire da Facebook, Twitter e Youtube, oscurati sul resto della nazione. Il messaggio- shock è che il partito ha le risorse per aprire altre "zone di libero scambio" nel resto della Cina, creando «decine di nuove Hong Kong» fedeli agli eredi di Mao.

I leader cinesi sono stati chiari: la vecchia succursale della finanza occidentale in Asia deve scegliere se «essere la città della lotta politica o quella dello sviluppo economico». Il denaro quale alternativa ai diritti, seguendo il modello dell'autoritarismo di mercato cinese, pena un drammatico tramonto a favore della megalopoli presto liberalizzata del capitalismo rosso, culla del partito.

Il business al posto delle armi, per reprimere il dissenso e continuare ad imporre a Hong Kong i governatori scelti da Pechino. Duello decisivo, capace di allineare anche Li Ka-shing, l'uomo più ricco dell'Oriente, padrone di Hong Kong.

«La free trade zone di Shanghai avrà un impatto più grande e più rapido di quanto immaginiamo. Chi non accelera lo sviluppo, resterà indietro». Come dire che la democrazia, ormai, può attendere.

 

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