LA PROPAGANDA È ANCHE UNA QUESTIONE DI GIORNALI SENZA SOLDI - LA CRISI PROFONDA DELL'EDITORIA SI RIFLETTE PURE SULLA COPERTURA MEDIATICA DELLA GUERRA: "SENZA RISORSE E MODELLI DI BUSINESS EFFICACI NON SI POTRÀ SOSTENERE IL RACCONTO DEGLI INVIATI SUL CAMPO", DENUNCIA GINA CHUA, EXECUTIVE EDITOR DI SEMAFOR, DURANTE UN INCONTRO ALLA COLUMBIA JOURNALISM SCHOOL - SE MANCA L'INFORMAZIONE DI QUALITÀ E LO SVILUPPO DEL DIGITALE SI LASCIA SPAZIO ALLA DISINFORMAZIONE: L'ESEMPIO RUSSO CI INSEGNA CHE…
Paolo Mastrolilli per “la Repubblica”
gina chua prima e dopo il cambio di sesso
«Un cronista russo che oggi scrive la parola guerra rischia di farsi quindici anni in galera». Quando Gina Chua denuncia quest'ultima complicazione del giornalismo contemporaneo, senza nemmeno accennare ai colleghi ammazzati o feriti in Ucraina dalle bombe di Putin, l'aula magna della Columbia Journalism School si indigna.
Il vero punto però non è esaltare il coraggio degli inviati, dandosi una compiaciuta pacca sulle spalle, che rischia di diventare patetica davanti all'eroismo di chi la guerra la combatte o la patisce in casa propria: «Il problema è che senza risorse e modelli di business efficaci questo giornalismo non si potrà più fare».
E immaginate il futuro delle nostre società, se non sapessimo nulla di quanto accade a Kiev, o nei crescenti angoli del mondo dove i diritti umani più basilari vengono calpestati da egotismo, ideologia, nazionalismo o semplice tornaconto personale.
Messa così, nessun cittadino responsabile può scrollare le spalle davanti alla crisi dell'informazione e tirare a campare. L'occasione per queste riflessioni viene dal weekend che ogni anno la Facoltà fondata da Joseph Pulitzer dedica agli ex alunni per aggiornarli.
Stavolta l'ospite d'onore è il direttore del Los Angeles Times, Kevin Merida, ex managing editor al Washington Post con Bezos. E la musica non è piacevole: «Io amo la carta. Mi piace averla in mano, sfogliarla, scegliere la sezione da leggere. Mi piace la cura con cui la stampiamo. Però è inutile prenderci in giro: i giornali di carta spariranno tra uno e massimo cinque anni di tempo. Adesso non prendetemi alla lettera, per il gusto di smentirmi: magari qualcuno farà ancora qualche edizione stampata, tipo noi o il New York Times , ma la grande maggioranza diventerà solo digitale o chiuderà».
LA DISINFORMAZIONE DI vladimir putin
Merida scrolla la testa, quando pensa che «un tempo al Washington Post avevamo due redazioni separate per web e carta. Vanno integrate subito. Dovrebbero già esserlo ovunque, perché il prodotto è unico. È ridicolo tenerle divise».
La crisi è in stato così avanzato che «bisogna porre il problema a livello nazionale come industria, perché servono finanziamenti per far sopravvivere il giornalismo soprattutto locale, anche dopo il passaggio al digitale. Noi forse ce la faremo, ma gli altri chiudono, lasciando intere città senza neanche una fonte attendibile di informazione».
LA DISINFORMAZIONE DI vladimir putin
Kevin confessa senza reticenze che «la chiave per noi è il marketing, bisogna provarle tutte per fare abbonamenti. Abbiamo anche lanciato un'offerta da un dollaro per 6 mesi, e in parte ha funzionato, perché diversi lettori hanno poi confermato la sottoscrizione. Vanno provate tutte, senza fare gli schizzinosi, perché in gioco è la sopravvivenza, e non bisogna limitarsi ad una sola strategia.
Noi puntiamo sui servizi per la comunità ispanica in crescita. Organizziamo feste di quartiere con cibo e musica. Sui contenuti è ovvio che qualità, accuratezza e originalità devono distinguere i media tradizionali dai nuovi, ma non basta. Noi per esempio stiamo trasformando la parte immagini, video e non solo, oltre il giornalismo e verso l'intrattenimento».
Dove naturalmente non guasta essere nella città di Hollywood, a poche ore dalla Silicon Valley: «La misura del successo sarebbe se qualcuno che cancella l'abbonamento a Netflix lo facesse con noi».
Poi va cercato il ricambio, perché senza non c'è futuro: «Dobbiamo sviluppare non solo il linguaggio, ma anche i contenuti per attirare i giovani. Non basta banalizzare i temi, accorciare i pezzi e togliere le parole difficili».
Su queste macerie, il preside uscente Steve Coll ospita il suo panel dedicato alla difesa della libertà di stampa, perché è minacciata ovunque e tutto si tiene. Tra gli invitati c'è Gina Chua, già executive editor di Reuters e ora executive editor di Semafor, il nuovo media digitale globale fondato da Ben Smith, ex direttore di Buzzfeed. Qui siamo ad un business model unico.
Hanno tra 20 e 30 milioni di finanziamenti per un media solo digitale in inglese, destinato alle classi più istruite e ricche del Pianeta. Perché questa è l'audience ancora interessata all'informazione di qualità, notizie o analisi che spiegano e fanno capire cosa accade, ed è disposta a pagarla.
Trasformazioni epocali che avvengono sullo sfondo di minacce mortali per l'informazione: «Da una parte c'è Elon Musk - comincia Coll - che compra Twitter presentandosi come l'ambasciatore della libertà di espressione; dall'altra la Russia, che perseguita chi scrive l'evidenza. I media internazionali la stanno abbandonando, per comprensibile paura, ma immaginate come sarà la qualità del giornalismo che dovrà raccontare Mosca dall'esilio».
Gina non esista a rispondere: «Pessima, la qualità sarà pessima. E non è il solo luogo del modo dove il giornalismo decente è condannato all'esilio. Però se è tragico che noi occidentali non sapremo la verità sulla Russia, pensate a quanto più drammatico è che i russi già non sappiano cosa succede a casa loro».
Tutto perciò si lega al problema delle risorse e i business model, perché senza media indipendenti che riescono a stare in piedi sparisce l'informazione libera e restano solo propaganda e disinformazione.
E non sarà un danno solo per i giornalisti che perderanno il posto, ma anche per chi non spendendo il dollaro elemosinato da Merida, perderà quella che il presidente Jefferson considerava l'anima della democrazia: «Allo Stato senza i giornali, preferisco i giornali senza lo Stato».