LE CANTONATE DEL CAV. - QUANDO IL BANANA HA OFFERTO A MARONI LA NUOVA ALLEANZA PDL-LEGA NON AVEVA CONSIDERATO CHE BOBO NON È BOSSI - A DIFFERENZA DEL SENATÙR CHE DECIDEVA E COMANDAVA, L’EREDE AL TRONO DI PADANIA DEVE MEDIARE CON I COLONNELLI TOSI E SALVINI - E COME DIMENTICARE LA SVOLTA GIUSTIZIALISTA E FILO-PM (LEGGI WOODCOCK) DI MARONI SUL CASO PAPA E SU BELSITO?…

Giancarlo Perna per "il Giornale"

Ha preso davvero una cantonata il Cav quando ha proposto a Ro¬berto-Maroni di rinnovare l'alle¬anza che già ci fu tra lui e Umberto Bos¬si. Un errore politico e psicologico che faceva presagire il no di Bobo: «Caro Sil¬vio, se ti candidi a premier, niente patti con la Lega. Non ti vogliono né i militan¬ti, né gli amministratori, né i parlamen¬tari». Benvenuto invece Angelino Alfa¬no. Per il Cav, una sberla in piena faccia.

Berlusconi è stato ingenuo. Credeva di avere ancora a che fare con Bossi, ma aveva di fronte Maroni. Accantoniamo per ora il carattere oscillante di Bobo e ve¬niamo alla sua posizione nella Lega Nord. Eletto segretario il primo luglio di quest'anno nel tumulto dell' affaire Belsito, Maroni è stato percepito dai militanti smarriti come la ciambella di salvataggio a portata di mano.

Non il capo sceso dal cielo con l'aureola dell'eroe padano che schiude gli oriz¬zonti del futuro. Solo una guida transi¬toria con quel che passa il convento. Lontanissimo dal carisma di Bossi. Ba¬sta sentire come ne parlano capi e ca¬petti leghisti sostenendo la sua candi¬datura alla guida della Regione Lom¬bardia: «È il meglio che c'è»,«ha le car¬te in regola» e cose così. Cioè, la piena consapevolezza che il loro campione non è un fuoriclasse ma un primus in¬ter pares , dietro al quale scalpitano ¬aggressivi e con più alone- i Flavio To¬si, Matteo Salvini e ruspanti vari.

Al Cav è sfuggito che Maroni non è in grado di imporre la propria volontà alla Lega. Non è Bossi che decideva a capriccio e la truppa seguiva. Bobo de¬ve chiedere, mediare, non alzare la vo¬ce e tenere conto al millimetro dei de¬siderata dei suoi colonnelli. Come un condottiere del basso impero, obbedi¬sce fingendo di comandare.

Gli umori profondi dei leghisti sono contrari al Berlusca, e non da oggi. La cosa con Bossi era messa a tacere dall'indiscuti¬bilità del capo e oggi emerge senza re¬more. Bobo deve te¬nerne conto. Quindi, qualsiasi promessa Maroni gli faccia a quattr'occhi, sappia Berlusconi che, una volta tornato in sede in via Bellerio, Bobo se la rimangerà.

Ondeggiare è nel suo carattere. C'è in lui una certa doppiez¬za che suggerisce di diffidarne. Come altri politici di non prima grandezza, Maroni si ammanta di giustizialismo, per darsi un tono legalitario. Ed è in questo ambito che ha colpito la sua spregiudicatezza in due episodi.

Un anno e mezzo fa, la Camera dove¬va decidere se autorizzare l'arresto del deputato Pdl, Alfonso Papa, magi¬strato in aspettativa. Papa, napoleta¬no, era accusato di corruzione dal suo collega anglo-com¬paesano Woo¬dcock, noto per non azzeccarne una. Già questo avrebbe do¬vuto mettere in guar¬dia. Il Pdl era infatti orientato a negare l'autorizzazione e aveva convinto Bos¬si a fare lo stesso. Bo¬bo, invece, allora mi¬nistro dell'Interno - e già ai ferri corti con Umberto - aveva deciso di manda¬re Papa in gattabuia, persuadendo a seguirlo la stragrande maggioranza dei leghisti, noti estimatori di cappi e manette.

Durante il voto, Maroni mo¬strò platealmente l'indice della mano sinistra, per rendere palese all'Aula la pressione sul pulsante del sì. Fatta la bravata dichiarò: «Noi siamo coeren¬ti». Non precisò a quale sacro princi¬pio. Papa passò cento giorni a Poggio¬reale e poco dopo Riesame e Cassazio¬ne stabilirono che Woodcock aveva ammannito la solita patacca e che il deputato era stato ingiustamente de¬tenuto.

Per giustificarsi, Bobo disse che lui del merito se ne infischiava, ma aveva voluto la galera per dare un segno di «legalità». Peggio il tacòn del buso , poiché non è chiaro di che legali¬tà parli se la detenzione era, appunto, illecita. Passi la scontata incoerenza del politico ma se pensiamo che Maro¬ni è pure avvocato, c'è da augurarsi di non incrociarlo per strada.

L'altro episodio è recentissimo e ci tocca nella carne. A metà novembre si discuteva al Senato di evitare la galera ai giornalisti condannati per diffama¬zione. C'era un mezzo accordo e per Alessandro Sallusti si intravedeva una speranza. Di colpo, invece, i leghi¬sti di Maroni, in combutta con un tran¬sfuga radicale oggi clericaleggiante, presentarono un emendamento che ripristinava i ceppi. Coperti dal voto segreto, i senatori rivelarono la loro in¬tima natura approvando la proposta sbirresca. Si sa come poi andarono le co¬se.

La galera fu nuo¬vamente cancellata, ma ci si accapigliò su questo e quello, fin¬ché la legge è finita su un binario morto, Sallusti agli arresti e il Giornale nelle pe¬ste. Ma torniamo all'emendamento Ma¬roni¬ Rutelli. Dopo l'approvazione Sal¬lusti rivelò nel suo editoriale che, il giorno precedente al voto, Maroni gli aveva mandato un suo libro accompa¬gnato da una dedica affettuosa: «Buo¬na lettura e buon lavoro».

Ossia, falso come Giuda. Rimasto in braghe di te¬la, Bobo fece una piagnucolante retromarcia il giorno dopo con un'intervi¬sta su queste pagine. «È stato un erro¬re - belò - mai i giornalisti in galera. La libertà di stampa è nel Dna della Lega nord». Quando più su ho parlato di doppiezza maroniana, intendevo questo.

Per concludere il periplo sulla perso¬nalità politica di Maroni vanno ag¬giunte due cose. La prima: è stato nei governi Berlusconi un eccellente mi¬nistro sia del Lavoro sia dell'Interno, dando prova di essere più portato nel¬le scelte politico-amministrative che in quelle politico-partitocratiche. L'al¬tra è più delicata e oscura. Bobo ha in¬fatti suscitato il sospetto in una parte della Lega di essere all'origine dello scandalo che ha travolto la famiglia di Umberto Bossi. Non ovviamente del¬lo scandalo in sé, che è nelle cose, ma della sua scoperta.

Per capire, biso¬gna ricordare che a indagare sul teso¬riere Belsito e le presunte mazzette al Trota e famiglia fu quel medesimo pm napoletano Woodcock cui Bobo, co¬me abbiamo visto, aveva consegnato dieci mesi prima il deputato Papa in manette. Facendo due più due, i bos¬siani pensarono a uno scambio di fa¬vori: io ti ho dato Papa, tu mi dai Bossi.

L'accusa, mai formulata apertamente per mancanza di prove, è però furtiva¬mente circolata. Né era questa la pri¬ma volta in cui fu intravisto lo zampi¬no di Maroni nella logorante guerra se¬guita alla malattia di Bossi, presunto prigioniero del cerchio magico guida¬to dalla moglie Manuela.

Già sotto Na¬tale dell'anno scorso comparve, infat¬ti, un articolo di Repubblica su un festi-no con droga cui avrebbe partecipato in quel di Brescia, l'allora consigliere regionale lombardo, Renzo Bossi. L'orget¬ta del Trota fu smenti¬ta dalla sua tutrice, l'assessore lombar¬do allo Sport, Moni¬ca Rizzi, che parlò di «mandanti» e «mele marce», insinuando che a dare l'offa ai giornali poteva essere solo chi aveva un piede - sottinteso, come ex mini¬stro dell'Interno - negli ambienti inve¬stigativi. Di vero, con ogni probabili¬tà, non c'è niente. Ma se suscita questi dubbi, Maroni ha un problema.

 

 

BERLUSCONI E MARONI A MONTECITORIO FLAVIO TOSI MATTEO SALVINI ROBERTO MARONI jpegROBERTO MARONI E FLAVIO TOSI BOSSI MARONI E LA SCOPA PADANA UMBERTO BOSSI E ROBERTO MARONI ELETTO SEGRETARIO DELLA LEGA NORD jpegFRANCESCO BELSITO ALFONSO PAPA

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