FAVO-LETTA, TASTO FINISH! LA FURIA DI ENRICHETTO: ‘È UN TRADIMENTO, MATTEO FA COME D’ALEMA CON PRODI MA IO NON MI DIMETTO’ – RENZI ATTACK: ‘IL GOVERNO HA LE PILE SCARICHE E LETTA SCORDA CHE NESSUNO L’HA VOTATO’

Francesco Bei e Goffredo De Marchis per "la Repubblica"

È stato il giorno della verità ». Così parla Renzi prima di avviarsi allo stadio e staccare con Fiorentina-Udinese. In tasca ha il consenso di quasi tutta la maggioranza, a partire dal Pd e da Scelta Civica, per traslocare a palazzo Chigi. Ancora non si è pronunciato Alfano, anche se la prudenza del leader Ncd appare motivata più da riconoscenza personale verso il premier che da reale convinzione politica.

Giorgio Napolitano resta neutrale, non dice no alla staffetta, attende che sia il Pd a risolvere il dissidio scoppiato tra i due "campioni". Nel lungo vertice sul Colle di lunedì sera con il segretario si è limitato a un suggerimento da politico navigato: «Agisci da leader, prendi le tue decisioni». Quel che importa al capo dello Stato è che la legislatura non si interrompa e, con essa, il cammino delle riforme.

Stamattina ci sarà il faccia a faccia finale tra Renzi e Letta, quello in cui verranno pronunciate le parole definitive. Il segretario del Pd è già oltre, immagina il suo «programma shock, un programma per cambiare l'Italia», fin dai primi cento giorni. Ne parla con i suoi, come se fosse tutto fatto. «Avrei voluto più tempo, ma il tempo non c'è». Dunque si butta, senza elezioni, per durare fino alla fine della legislatura. Anno 2018.
Il problema è che il premier, al momento, non ha alcuna intenzione di cedere il passo.

Eppure per l'intera giornata si rincorrono le voci di sue imminenti dimissioni. Forse stasera stessa, quando il presidente della Repubblica tornerà dal Portogallo. Possibile? Letta fa sapere invece che oggi getterà sul tavolo l'ultima carta: in conferenza stampa presenterà il suo «patto di coalizione », cinque punti per ripartire. Vuole dimostrare che il capolinea è ancora lontano. Il suo piano si regge su due pilastri, il lavoro e la lotta alla corruzione. «Questo programma di governo - afferma il premier a Milano dopo aver incontrato Napolitano al Quirinale - è convincente e convincerà tutti i partiti che sostengono il nostro governo, compreso il Pd».

Se in pubblico Letta ostenta distacco, nelle riunioni con i suoi traspare l'amarezza e l'ira per «l'assedio» a cui si sente sottoposto da giorni a opera delle truppe fiorentine. «Matteo si sta comportando come D'Alema con Prodi», sibila con gli amici. Sta consumando un tradimento in piena regola, accoltella alle spalle e non rispetta i patti. Di fatto però il premier appare isolato, nella coalizione e nel partito. La minoranza Pd non nasconde più la sua preferenza. Spinge Renzi verso palazzo Chigi e accusa Letta di scarso coraggio.

Il bersaniano Nico Stumpo individua l'inizio della caduta: «È finito tutto quando Enrico ha accettato che si svolgesse il congresso. Si doveva opporre, era chiaro che due galli
nel pollaio non possono stare». Come dire: il premier non può lamentarsi, ha perso l'occasione. Gli alleati minori hanno già mollato gli ormeggi.

Anzitutto i montiani. «Ora c'è la prospettiva di dar vita a una legislatura veramente costituente - spiega Stefania Giannini, leader di Sc - che arrivi alla sua scadenza naturale. Dall'altra parte cosa resta? Il rischio di entrare in una spirale che ci porterà in pochi mesi al voto anticipato ». L'equazione è semplice: con Renzi si va fino al 2018, con Letta tutto può precipitare da un giorno all'altro. Un ragionamento che convince anche la sinistra Pd e tutti i parlamentari che non vogliono andare a casa.

Renzi e Letta non si parlano, sono state le diplomazie a organizzare il vertice di stamattina. È Dario Franceschini a mediare per convincere «Enrico» a fare un passo indietro senza scontri cruenti. Il Pd vuole evitare che il premier si intestardisca come fece Prodi, imponendo al partito un drammatico voto di sfiducia nella direzione di giovedì. O, peggio ancora, in Parlamento. «Sarebbe una pessima soluzione - ammette il capogruppo Roberto Speranza - ma Enrico è un politico e un uomo di partito. Saprà valutare». Per ora tuttavia Letta non ha alcuna intenzione di cedere senza combattere: «Non mi dimetto», scandisce nel suo studio a Palazzo Chigi.

«Ognuno si deve prendere le proprie responsabilità alla luce del sole, anche il Pd. Il mio mandato dura fino alla fine del 2014. Questo era l'accordo. Non accetto manovre di palazzo e non partecipo a trattative sul mio futuro». Nessuno, insomma, può pensare di farlo traslocare da palazzo Chigi offrendogli un posto da commissario europeo o da ministro degli Esteri nel futuro esecutivo.

Anche se questa è la strada che batteranno i renziani, con la garanzia di un portafoglio europeo di peso. È l'offerta del segretario: prendere o lasciare. «Letta sta resistendo ad oltranza - osserva il sindaco parlando con i fedelissimi - però si dimentica che nessuno lo ha votato. Sta lì a guidare un governo di servizio. E il suo servizio sta per scadere». Se non dovesse abdicare, il segretario pensa a un discorso senza sconti in direzione.

Renzi ha deciso. Ieri mattina ha messo i deputati del Pd, nell'assemblea al Nazareno, di fronte a una scelta precisa. Pronto ad andare fino in fondo. «La batteria è scarica. Decidiamo se va ricaricata o cambiata. È come in un videogioco, noi abbiamo davanti l'81 per cento della barra della "vita", cioè il periodo restante della legislatura. Che facciamo, la buttiamo via o la usiamo per fare le riforme?». Il trittico è sempre lo stesso: l'Italicum, la nascita della Camera delle autonomie e il nuovo Titolo V. Il segretario le vuole portare a casa e pensa che lo stallo del governo ormai sia un ostacolo da rimuovere, in un modo o nell'altro.

«Possiamo decidere se interrompere la legislatura, se lasciare in piedi questo governo, oppure percorrere una terza opzione». Il governo Renzi, sottinteso. «Ma quest'ultima non posso essere io a proporla».

In realtà a largo del Nazareno hanno già studiato il calendario della crisi e buttato giù alcuni nomi della squadra per dare il senso di una «profonda discontinuità ». Domani, nell'ipotesi renziana, Letta rimette il mandato. Se non lo fa il segretario è pronto allo scontro in Direzione e si aspetta la sponda di Alfano, in una sincronia organizzata a tavolino. Già sabato Renzi potrebbe avere l'incarico e domenica tornerebbe al Quirinale con la lista dei ministri.

Al capo dello Stato porterebbe in dote l'allargamento della maggioranza, se è vero che una ventina di deputati di Sel e cinque senatori sono pronti alla scissione guidati da Gennaro Migliore. Numeri buoni per blindare il percorso delle riforme istituzionali. A loro si aggiungerebbero almeno una decina di dissidenti grillini. Persino in Forza Italia non manca chi, come Renato Brunetta, nelle riunioni interne spinge per l'appoggio esterno.

Ma sono voli pindarici, finché manca il tassello fondamentale: la resa di Letta. Le parole del premier non lasciano spazio a dubbi sulle responsabilità di quello che il premier considera «un agguato». L'assurdo è che si arriva all'incontro di oggi nel gelo assoluto, perché i due continuano a non rivolgersi la parola. Però questo passaggio diventa fondamentale. Per il bene del Partito democratico, colpito dall'ennesima maledizione di due leader che si cannibalizzano tra di loro. Arrivano alle orecchie di Letta le voci che i renziani spargono per il Transatlantico: «Dobbiamo convincerlo a mollare. Gli conviene, altrimenti si mette tutti contro».

Voci che respinge perché non accetta che il duello si consumi fuori dal Parlamento, nei colloqui telefonici e riservati di Renzi con gli altri leader politici. L'insegnamento di Prodi, che si fece sfiduciare dalle Camere sapendo di non avere più la maggioranza, lo ispira e lo tenta. Una crisi che segua i crismi della Costituzione, senza scorciatoie e trattative sottobanco, questa è la strada maestra. Anche se il prezzo da pagare potrebbe essere alto. «Lavoro sull'Expo - dice il premier durante la sua visita a Milano - perché sono straconvinto che sia una grande opportunità italiana. Poi, agirà la Provvidenza sulla mia sorte personale. L'anno prossimo, gli anni prossimi, non so».

 

 

MATTEO RENZI E LA BOMBA A ENRICO LETTA RENZI E LETTAprodi dalema 2006 lapirl33 romano prodi massimo dalemaNICO STUMPO ROBERTO SPERANZA Dario Franceschini Renato Brunetta GENNARO MIGLIORE NIKI VENDOLA GENNARO MIGLIORE

Ultimi Dagoreport

andrea orcel gaetano caltagirone carlo messina francesco milleri philippe 
donnet nagel generali

DAGOREPORT - COSA FRULLAVA NELLA TESTA TIRATA A LUCIDO DI ANDREA ORCEL QUANDO STAMATTINA ALL’ASSEMBLEA GENERALI HA DECISO IL VOTO DI UNICREDIT A FAVORE DELLA LISTA CALTAGIRONE? LE MANGANELLATE ROMANE RICEVUTE PER L’OPS SU BPM, L’HANNO PIEGATO AL POTERE DEI PALAZZI ROMANI? NOOO, PIU' PROBABILE CHE SIA ANDATA COSÌ: UNA VOLTA CHE ERA SICURA ANCHE SENZA UNICREDIT, LA VITTORIA DELLA LISTA MEDIOBANCA, ORCEL HA PENSATO BENE CHE ERA DA IDIOTA SPRECARE IL SUO “PACCHETTO”: MEJO GIRARLO ALLA LISTA DI CALTARICCONE E OTTENERE IN CAMBIO UN PROFICUO BONUS PER UNA FUTURA PARTNERSHIP IN GENERALI - UNA VOLTA ESPUGNATA MEDIOBANCA COL SUO 13% DI GENERALI, GIUNTI A TRIESTE L’82ENNE IMPRENDITORE COL SUO "COMPARE" MILLERI AL GUINZAGLIO, DOVE ANDRANNO SENZA UN PARTNER FINANZIARIO-BANCARIO, BEN STIMATO DAI FONDI INTERNAZIONALI? SU, AL DI FUORI DEL RACCORDO ANULARE, CHI LO CONOSCE ‘STO CALTAGIRONE? – UN VASTO PROGRAMMA QUELLO DI ORCEL CHE DOMANI DOVRA' FARE I CONTI CON I PIANI DELLA PRIMA BANCA D'ITALIA, INTESA-SANPAOLO…

donald trump ursula von der leyen giorgia meloni

DAGOREPORT - UN FACCIA A FACCIA INFORMALE TRA URSULA VON DER LEYEN E DONALD TRUMP, AI FUNERALI DI PAPA FRANCESCO, AFFONDEREBBE IL SUPER SUMMIT SOGNATO DA GIORGIA MELONI - LA PREMIER IMMAGINAVA DI TRONEGGIARE COME MATRONA ROMANA, TRA MAGGIO E GIUGNO, AL TAVOLO DEI NEGOZIATI USA-UE CELEBRATA DAI MEDIA DI TUTTO IL MONDO. SE COSÌ NON FOSSE, IL SUO RUOLO INTERNAZIONALE DI “GRANDE TESSITRICE” FINIREBBE NEL CASSETTO, SVELANDO IL NULLA COSMICO DIETRO AL VIAGGIO ALLA CASA BIANCA DELLA SCORSA SETTIMANA (L'UNICO "RISULTATO" È STATA LA PROMESSA DI TRUMP DI UN VERTICE CON URSULA, SENZA DATA) - MACRON-MERZ-TUSK-SANCHEZ NON VOGLIONO ASSOLUTAMENTE LA MELONI NEL RUOLO DI MEDIATRICE, PERCHÉ NON CONSIDERANO ASSOLUTAMENTE EQUIDISTANTE "LA FANTASTICA LEADER CHE HA ASSALTATO L'EUROPA" (COPY TRUMP)...

pasquale striano dossier top secret

FLASH – COM’È STRANO IL CASO STRIANO: È AVVOLTO DA UNA GRANDE PAURA COLLETTIVA. C’È IL TIMORE, NEI PALAZZI E NELLE PROCURE, CHE IL TENENTE DELLA GUARDIA DI FINANZA, AL CENTRO DEL CASO DOSSIER ALLA DIREZIONE NAZIONALE ANTIMAFIA (MAI SOSPESO E ANCORA IN SERVIZIO), POSSA INIZIARE A “CANTARE” – LA PAURA SERPEGGIA E SEMBRA AVER "CONGELATO" LA PROCURA DI ROMA DIRETTA DA FRANCESCO LO VOI, IL COPASIR E PERSINO LE STESSE FIAMME GIALLE. L’UNICA COSA CERTA È CHE FINCHÉ STRIANO TACE, C’È SPERANZA…

andrea orcel francesco milleri giuseppe castagna gaetano caltagirone giancarlo giorgetti matteo salvini giorgia meloni

DAGOREPORT - IL RISIKONE È IN ARRIVO: DOMANI MATTINA INIZIERÀ L’ASSALTO DI CALTA-MILLERI-GOVERNO AL FORZIERE DELLE GENERALI. MA I TRE PARTITI DI GOVERNO NON VIAGGIANO SULLO STESSO BINARIO. L’INTENTO DI SALVINI & GIORGETTI È UNO SOLO: SALVARE LA “LORO” BPM DALLE UNGHIE DI UNICREDIT. E LA VOLONTÀ DEL MEF DI MANTENERE L’11% DI MPS, È UNA SPIA DEL RAPPORTO SALDO DELLA LEGA CON IL CEO LUIGI LOVAGLIO - DIFATTI IL VIOLENTISSIMO GOLDEN POWER DEL GOVERNO SULL’OPERAZIONE DI UNICREDIT SU BPM, NON CONVENIVA CERTO AL DUO CALTA-FAZZO, BENSÌ SOLO ALLA LEGA DI GIORGETTI E SALVINI PER LEGNARE ORCEL – I DUE GRANDI VECCHI DELLA FINANZA MENEGHINA, GUZZETTI E BAZOLI, HANNO PRESO MALISSIMO L’INVASIONE DEI CALTAGIRONESI ALLA FIAMMA E HANNO SUBITO IMPARTITO UNA “MORAL SUASION” A COLUI CHE HANNO POSTO AL VERTICE DI INTESA, CARLO MESSINA: "ROMA DELENDA EST"…