VAFFANCULO COMPAGNI! – MA QUALE AUTOCRITICA, QUELLA DI CULATELLO E’ UN ATTO DI ACCUSA A UN PARTITO DI PARAGURI

Roberto Scafuri per "Il Giornale"

Segretario o reggente? Di garanzia o con poteri? Futuro premier o un travicello che ricostruisca il partito per la maggior gloria di Renzi? Guglielmo Epifani o Gianni Cuperlo? O Sergio Chiamparino, che avanza su ciò che resta, poca cosa, del Pd conosciuto fin qui?

Ma per ora c'è Pier Luigi Bersani, il leader dimissionario. La cruciale Assemblea di sabato è infarcita di suoi (ex?) fedelissimi, per cui converrà partire da lui, dalla sua idea di una «figura di largo consenso che sia di garanzia per tutti» («Non ne vedo», il dispettoso contraltare della Bindi). E da un gruppo dirigente che, «per essere dimissionari, è parecchio attivo», lamenta Pippo Civati, unico oppositore in grado di metterci la faccia e pronto a fare un Pd «aperto e inclusivo da un'altra parte».

Il contrordine compagni del segretario ha la forma di un'autocritica, non la sostanza. È affidato alle colonne dell'Unità, che così titolava l'atto di accusa di Bersani a chi l'ha tradito (cioè tutti): «Il Pd ha mancato la prova».

Di fronte alla «prima vera responsabilità, non siamo riusciti a saltare l'asticella», ha spiegato il risentimento del Capo. Le cui dimissioni «spero possano servire a qualcosa, a incoraggiare una discussione vera, a decidere correzioni profonde rispetto al nostro modo di essere». In quel nostro, però, non si avverte affatto l'io errante (cioè che sbaglia) che pure tanto ha influito sullo sbandamento generale. Tutt'altro: «Non ho intenzione di ricostruire passaggio per passaggio quelle giornate perché sarebbe doloroso per me e umiliante un po' per tutti. Mi fermo su un punto incontestabile: siamo venuti meno a decisioni formali e collettive».

In questo richiamo all'oggettività, Bersani sa di non poter essere smentito: la mattina dell'adesione «entusiasticamente collettiva» alla candidatura di Prodi, «nessuno aveva appoggiato la mia richiesta di voto segreto» sulla proposta. Verissimo. Ma forma, non sostanza. Perché quella mattina, quando il leader non aveva ancora finito la frase: «Per me questo candidato è Romano Pr...», prevalse un applauso trascinante che aveva tanti significati di carattere liberatorio, tranne uno. Che davvero si volesse Prodi al Quirinale.

Fu una forzatura, non si sa quanto sospinta dagli uomini del segretario e quanto da altre forze sotterranee e con interessi contrastanti all'interno del partito. Magari persino quella di dirigere il frettoloso e ondeggiante Schettino contro gli scogli, dopo l'onta dell'inchino a Grillo («Sbaglia chi sostiene che mi sarei fatto umiliare da Grillo, l'arroganza umilia chi la mostra»).

Questo accadde, e Bersani ancora una volta si autoassolve senza aver davvero compreso che il partito è cambiato dall'interno, anche per l'irruzione di giovani trentenni che magari, come trapela da lui stesso in un altro passaggio, dispiacendosene molto, considera vittime della «lunga semina della cultura berlusconiana che ha messo frutto anche nel nostro campo».

Tanti gli errori del partito, disaminati come se non fossero (anche) i propri: «Ci eravamo indeboliti caricandoci addosso la responsabilità dello stallo... (è emerso) un deficit di autonomia, una nostra incomprensibile permeabilità, una difficoltà a esercitare un ruolo di rappresentanza, di orientamento, di direzione». E infine, «l'irrompere di rivalse, ritorsioni, protagonismi spiccioli». Il suo, effettivamente, non lo è; piuttosto appare come stupore disperato di chi parla una lingua superata dalla storia.

 

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