DAGONOTA
I nullisti. Eccoli, sono loro i protagonisti della nostra modernità. Muoiono da soli, se ne vanno in silenzio, senza troppo clamore e senza nessuno in grado di indagare le loro storie, quelle vere, autentiche e profonde.
L’attore, regista e sceneggiatore Libero De Rienzo si è spento a 44 anni qualche giorno fa, tutto solo nella sua casa romana dove hanno trovato eroina. Proprio lui, insieme a tanti altri quarantenni, ma anche cinquanta-sessantenni, faceva parte di quel gruppo dei “nullisti” al centro dei romanzi di Emanuele Trevi che, peraltro, era amico di Picchio, come gli intimi chiamavano l’interprete di “Smetto quando voglio”.
Nel libro “I cani del nulla” (appena ristampato da Einaudi Stile Libero), il vincitore del premio Strega di quest’anno descrive le vicissitudini dei “nullisti” che si distinguono dai nichilisti. “Il nichilismo è una tradizione di pensiero, una visione del mondo complessa, un reticolo di idee in movimento”, spiega Trevi.
“Quello che potremmo definire invece il nullismo, consiste in un sentimento molto semplice - lo sgomento della vita di fronte alla sua nullità. Questo sgomento, di per sé, è un binario morto, non produce conseguenze rilevanti né nell’ordine del pensiero né in quello dell’ispirazione artistica, non è né religioso né ateo, non peggiora né migliora l’umore del momento”.
Del gruppo degli sgomenti “nullisti” fanno parte Rocco Carbone e Pia Pera, gli scrittori morti prematuramente e protagonisti di “Due vite” (Neri Pozza) con cui Trevi si è assicurato il premio Strega. Ma “nullista” lo è anche lo stesso narratore e tanti altri esponenti del mondo della cultura e dello spettacolo. Eppure sui belli e dannati del nostro tempo vige una specie di omertà, di pudore fatto di reticenza e di non confessato perbenismo.
Oggi siamo più conformisti degli scrittori deli anni Venti del secolo passato. Sandro Veronesi, per esempio, nell’introduzione a “I cani del nulla” si perde in un mirabile esercizio di stile e descrive il racconto di Trevi come un catalogo delle banalità del quotidiano. Altro che quotidianità! Visitiamo con Trevi il suo armadietto delle medicine: “Autan, Lexotan. Imovane, Triptizol. Laroxil, Betagon. Bimixin. Actifed. Voltaren”, e facciamo un viaggio con lui e sua moglie Martina in mondi irraggiungibili e lontani come questo:
“Il nostro isolamento cresce di giorno in giorno. Nondimeno, un certo ritmo di eventi sembra ancora registrabile – la parodia inquieta di un itinerario, di una strada in questo mondo. Una sera un nostro amico ci porta una boccetta di liquido trasparente. Sull’etichetta ci sono un cagnolino e un gattino stilizzati che sorridono, con gratitudine.
Mettiamo il liquido a bagnomaria su un piatto, e quando l’acqua evapora rimane una polverina bianca, che sminuzziamo ben bene con la carta di credito, fino a ottenere la consistenza giusta. Fatte delle strisce, la tiriamo. È una specie di analgesico leggero, si chiama Ketamina, in India lo usano per i bambini, qui da noi per gli animali, ma è la stessa roba.
Stimola molto in fretta delle specie di visioni simmetriche: se assunto, ovviamente, in tale maniera non ortodossa. Per tutta la notte, sul divano, mia moglie costruisce un grande tempio – cupole, torri altissime, ordini sovrapposti di colonne…”.
L’isolamento, osserva lo scrittore è terribile. Lo si supera con notturne allucinazioni. Ma nessuno indaga a fondo sulle vere ragioni di queste morti inaspettate e nessuno parla di Trevi come il grande cantore del Nulla che devasta le ultime generazioni. Il re è nudo e tutti fanno finta di non vederlo.