1. LETTERA DI ALBERTO MATTIOLI A DAGOSPIA
alberto mattioli foto di bacco
Caro Dago,
no, il dibattito nooo!, strillava Nanni Moretti. E invece, questa volta sì, il dibattito sììì!, perché la rissa intellettuale su Paolo Conte alla Scala è assai stimolante e oserei dire divertente, certo più che dei soliti moralismi prêt-à-penser che alluvionano le pagine culturali dei giornali e che rendono così appagante non leggerle.
Infatti Dagospia, che invece leggiamo tutti, specie chi nega di farlo, al Conte scaligero ha dedicato molto spazio. Ho l’impressione, però, che la discussione stia prendendo una piega molto italiana, quella di una battaglia di principio slegata dai fatti e condotta da persone che dei fatti non sono benissimo informate.
Nel mio piccolissimo, quel che dovevo dire l’ho detto sul “Foglio” rispondendo a Piero Maranghi che aveva aperto le danze sullo stesso giornale: la retorica del teatro come Tempio è ridicola dal punto di vista storico, perché quella del Tempio è una delle modalità della fruizione teatrale, non “la” modalità, e soprattutto pericolosa, perché giustifica quel conservatorismo arteriosclerotico che ha distrutto l’opera in Italia.
E del resto basta andarci davvero, alla Scala, per rendersi conto che il Tempio assomiglia sempre più a una necropoli. Poi gli interventi si sono succeduti. Vittorio Sgarbi sul “Foglio” ha spiegato che Conte dev’essere ospitato alla Scala perché piace al pubblico e Filippo Facci su “Libero” perché piace a lui. Passata la fase del ciao, come sto?, Pierluigi Panza ha argomentato brillantemente il suo “no” chez Dago e Marco Molendini gli ha risposto per il “sì” esattamente con gli stessi argomenti che avrei usato io.
Poi ci sono tre firme che mi piacciono moltissimo ma che mi sono piaciute meno in questa circostanza perché, dagli argomenti che hanno usato, si capisce che non conoscono bene ciò di cui scrivono.
Una è Francesco Merlo (fronte del sì), la cui rubrica su “Repubblica” è come Dago: la leggono tutti. Però se parli del “miao” di Rossini non sai quel che san tutti, cioè che il “Duetto buffo di due gatti” non è affatto di Rossini. La cosa è nota da decenni e fu definitivamente acclarata da Edward J. Crafts nel 1975, Merlo può consultare il numero 3 del “Bollettino del Centro rossiniano di studi”.
La seconda è Milena Gabanelli (fronte del no), grande giornalista e donna simpaticissima che ho conosciuto proprio a casa di Maranghi. Al suo intervento su “Repubblica” hanno messo un titolo curioso, “Competenza, altro che jazz”, come se il jazz la competenza non la richiedesse e nella gerarchia dei “generi” cara a Panza non fosse già stato elevato all’empireo della “classica” o quasi.
LA LETTERA DI MILENA GABANELLI SUL CASO SCALA PUBBLICATA DA REPUBBLICA
Ma magari il titolo non è farina del sacco di Gabanelli: curioso però che attacchi senza nominarlo il sovrintendente Dominique Meyer dove attaccabile lo è meno, sugli aspetti amministrativi e finanziari, insomma i conti, mentre invece il problema della sua gestione, come spiegava Maranghi, è che non ha alcuna linea artistica o culturale (anche se poi, su quale sia quella giusta, Maranghi e io saremmo sicuramente in disaccordo).
La terza è Giacomo Papi (fronte del nì), autore del “Censimento dei radical chic”, un libro che ho adorato, che però oggi sul “Foglio” fra molte cose sensate dice che “niente è leggero come un’aria di Verdi”, già, e i monologhi di Amleto sono cabaret.
E qui mi fermo perché ho già sproloquiato abbastanza. Resta solo da chiedersi, ma questo l’ha già scritto Dagospia, perché di questa faccenda parlino tutti i giornali, oggi anche il “QN”, tranne il “Corriere della Sera” che pure è quello di Milano.
E la Scala, “il primo teatro del mondo”, “il Tempio della musica” e altre baggianate (“Tante e tante volte ho sentito a Milano dirmi […] La Scala è il primo Teatro del Mondo. A Napoli Il S. Carlo primo Teatro del Mondo. In passato a Venezia si diceva La Fenice il primo Teatro del Mondo. A Pietroburgo Primo Teatro del Mondo. A Vienna Primo Teatro del Mondo e per questo starei anch’io. A Parigi, poi, l’Opéra è il Primo Teatro di Due o Tre Mondi!
ALBERTO MATTIOLI PAZZO PER L OPERA
Cosi (sic) io resto con la testa intronata cogli occhi spalancati, la bocca aperta dicendo… “e io testone non capisco nulla”… e finisco col dire che fra tanti primi sarà meglio un secondo”, firmato Giuseppe Verdi, 21 gennaio 1879), la Scala, dicevo, la Scala è Milano, anzi un’icona della milanesità più autoreferenziale e di successo, come il panettone, il risotto giallo, la moda, il Salone, l’apericena e i danée. Quindi forse hanno ragione i no: che c’entra, uno chansonnier di Asti, pheeega?
2. CRITERI PER LA SCALA
Estratto dell'articolo di Giacomo Papi per "il Foglio"
Quando ho letto il titolo della lettera aperta di Piero Maranghi contro il concerto di Paolo Conte alla Scala, ho pensato che fosse una battaglia di retroguardia. Dopo averla letta sono pieno di dubbi che non sono stati dissipati, anzi, dal dibattito in corso (che comunque è uno dei più interessanti degli ultimi anni).
[...] Mi pare necessario [...] parlare di due temi cruciali che la lettera pone: il rapporto tra contenuto e contenitore e quello tra bellezza e mercato. Il contenitore influisce sempre sul contenuto, e viceversa. Beethoven usato come sveglia telefonica, ha scritto Pierluigi Panza, o nello spot di Vecchia Romagna, aggiungo io, è diverso da quello ascoltato in concerto. [...] Allo stesso modo un romanzo di Georges Simenon cambia se è pubblicato negli Oscar Mondadori o da Adelphi.
Il problema si acuisce se l’opera d’arte pretende una fruizione collettiva perché in quel caso la tensione tra contenitore e contenuto si carica di un elemento liturgico, per non dire sacrale, che rende il pubblico protagonista. Quando Maranghi scrive che la Scala offre a Paolo Conte più di quanto Conte possa restituire alla Scala, credo stia parlando di questo: eseguita in quel teatro quella musica diventerà ancora più grande, ma il teatro diventerà più normale. E così siamo arrivati al secondo problema, quello del rapporto tra bellezza e mercato, che banalmente si esplica nel numero di pezzi o biglietti venduti.
[...] è indubbio che oggi al Louvre non ci si possa più andare a vedere la Gioconda, ma a farsi vedere con la Gioconda. [...] Quando vado alla Scala, spesso, mi annoio, non capisco quello che dicono, a volte dormo e russo, perfino. Insomma, faccio fatica. E come me fanno fatica, basta guardarli, quelli che alla Scala sono venuti per il teatro, ma sono disabituati all’opera.
E però alla fine, ogni volta, esco sapendo che è solo grazie a quella fatica se ho avuto accesso a una bellezza a cui la mia epoca, per questioni di velocità e consumo, non mi permetterebbe mai di arrivare. E’ per questo, credo, che nello statuto del Teatro alla Scala c’è la difesa della musica lirico-sinfonica, non quello della musica in generale.
Forse dovremmo abbandonare l’opposizione tra musica classica e leggera, perché niente è leggero come un’ouverture di Rossini, un’aria di Mozart o di Verdi. Ma la leggerezza che si prova guardando la luce e le nuvole in basso, dopo avere fatto la fatica della scalata.
Mi pare che la domanda di Piero Maranghi sia sul confine, quindi sui limiti del mercato e della massificazione, perché quello che è facile si vende sempre più facilmente, ma dopo il facile, viene il semplice e dopo l’ovvio e dopo niente.
Ha ragione Alberto Mattioli a scrivere che alla Scala, fino alla fine dell’Ottocento, ci si ritrovava a mangiare, bere e fare casino, ma questo non riguarda la musica. Se per ragioni economiche il programma si allargherà [...], il contenuto renderà sempre meno speciale il contenitore fino a svalutarlo anche economicamente, e saranno sempre più rari quelli che avranno voglia di sobbarcarsi la fatica di Mahler, Wagner o Berio, ma neppure, temo, del maestro Paolo Conte (che comunque è nell’anima e dentro l’anima per sempre resterà).
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