Davide Ferrario per “La Lettura - Corriere della Sera”
primo levi al premio strega 1963
Definire Marco Belpoliti «curatore delle opere di Primo Levi» è riduttivo. Certo, il suo lavoro filologico è inappuntabile e in continua evoluzione, basta consultarne la bibliografia (è del 2016-2017 l'ultima edizione delle Opere complete di Levi per Einaudi). Ma nel corso degli anni Belpoliti, egli stesso scrittore e intellettuale di prima fila, ha sviluppato nei confronti dell'autore di Se questo è un uomo un confronto continuo e progressivo, una sorta di «corpo a corpo» intellettuale e morale che ha prodotto libri estremamente personali, come La prova (Einaudi, 2007) o Levi di fronte e di profilo (Guanda, 2015); e perfino un film, La strada di Levi (2005), diretto dallo scrivente, di cui gli sarò sempre grato per la straordinaria esperienza che fu.
Per Belpoliti, Levi non è solo un corpus da studiare in modo accademico, ma rappresenta la continua messa a fuoco di un autore-chiave della modernità, dato che non si può appiattire la sua figura a quella di scrittore-testimone, per quanto l'esperienza del Lager torni come un avatar nei suoi scritti e pensieri. Il Lager, come ebbe lui stesso a specificare, fu per Levi, chimico di mestiere, un «laboratorio» per capire certi meccanismi profondi della natura umana in bilico tra bene e male assoluti, quelli che innervano la «zona grigia» di cui parla in I sommersi e i salvati.
Insomma, Primo Levi è un autore-mondo da leggere, rileggere, attraversare e di cui fare tesoro: ed è quello che fa Belpoliti. Ecco così questo Photo Levi (Acquario Editore), un volumetto costituito da una galleria di ritratti commentati, come quadri a un museo. Sono poco meno di una trentina di scatti, che vanno dalla fototessera della carta di identità del 1937 a uno degli ultimi ritratti dello scrittore, del febbraio 1987, due mesi prima del suo suicidio.
A ciascuna di queste fotografie l'autore dedica una sorta di scheda. Ci sono, come detto, un paio di «santini» da documento; poi, ritratti di fotografi professionisti; infine, istantanee colte in occasioni pubbliche di natura difforme: può essere la premiazione dello Strega o una semplice passeggiata in montagna.
La successione delle immagini racconta molto bene, sottolinea Belpoliti, la progressiva costruzione dell'«icona-Levi». È nel 1977, con la decisione di farsi crescere un pizzetto da alpino, che il volto dello scrittore, ormai prossimo ai sessanta, comincia ad assumere i connotati del maestro, del «vecchio saggio», che lo caratterizzeranno negli anni di maggiore popolarità, nonché dopo la morte.
primo levi al premio strega 1963
Un aspetto diverso da quello giovanile e da quello degli anni Cinquanta e Sessanta, dove un certo look, sobrio al limite dell'impiegatizio, lo confonde tra la folla dei più rutilanti colleghi. Anche il modo di tenere l'immancabile sigaretta manca del tipico «maledettismo» da scrittore. Levi resta fedele a sé stesso, è un uomo semplice, più a suo agio in mezzo ai giovani scamiciati in un paesello delle Langhe che non al Ninfeo di Villa Giulia dove si celebra il rito dello Strega (Levi vince nel 1979 con La chiave a stella).
fototessera di primo levi 1937
Nonostante l'iconicità, la cosa più sorprendente è il modo in cui il volto di Levi rifiuta di farsi consumare. Un pericolo concreto, soprattutto in quest'epoca, in cui l'immagine dell'artista talvolta si mangia l'opera. Levi resta inossidabile anche nel confronto con un contemporaneo superfotografato come Pier Paolo Pasolini. Pasolini operò un'esibizione estremamente consapevole di sé, del suo corpo, della sua immagine: in qualche modo produsse il proprio ritratto pubblico nei termini, spesso scandalosi, che desiderava. Niente di simile per un uomo dal carattere opposto come Levi. Eppure Belpoliti documenta come lo scrittore torinese non fosse affatto ritroso davanti alla macchina fotografica, anzi. Apriva volentieri lo studio a chi chiedeva di ritrarlo ed era collaborativo rispetto alle richieste del fotografo: pare non avesse remore ad offrirsi come «modello».
Ma questa disponibilità non si riflette nel risultato. Il più delle volte, il soggetto - tanto facilmente accessibile - risulta enigmatico, una sfinge. Nessuno di questi ritratti sembra davvero scalfire il mistero dell'interiorità di Levi. Ce ne dà al massimo qualche indizio, e il libro funziona come un mosaico di piccole tessere che, tutte insieme, se non un senso, ci regalano almeno un sentimento, una vibrazione di fondo. Qui, chiedendo venia per il personalismo, ricordo la mia esperienza nel lavorare al montaggio di La strada di Levi, perché sperimentai su di me qualcosa di simile.
Esaminai decine e decine di ore di interviste filmate e alla fine decisi di non usarne nemmeno una. Nel film anche le immagini mute di Levi sono ridotte al minimo. Il fatto è che ascoltando quei fiumi di parole (spesso importanti, perché gli intervistatori andavano da Levi con domande sui massimi sistemi) l'impressione che ne ricavavo è che proprio laddove Levi offriva la lucidità del suo pensiero, contemporaneamente si ritraesse in una personale «zona grigia» in cui quella lucidità gli offriva poco conforto.
Poteva spiegare agli altri in modo impareggiabile la natura del male ma l'impressione era che, finita l'intervista e spente le luci, quella consapevolezza rimanesse nella sua solitudine non come consolazione, ma come condanna. C'è forse uno scarto del genere all'origine del suo suicidio? Sono supposizioni. Levi stesso scrisse, a proposito del suicidio di Jean Améry, che solo i diretti interessati conoscono la ragione profonda del loro gesto. Nelle fotografie di Photo Levi ci sono molte immagini che è facile leggere come anticipatorie di quell'esito. Ma ce ne sono altrettante di un uomo sorridente e allegro, capace di godere di piccole gioie quotidiane. Alla fine, Primo Levi resta inafferrabile come un centauro, la fantastica creatura che lui stesso diceva di essere.
Primo Levi Primo Levi nelle scuole