Marco Giusti per Dagospia
Magari vi farà piacere sapere qualcosa su “Il buono, il brutto, il cattivo” di Sergio Leone che va in onda stasera su Rai Tre alle 20, 30. Così recupero le cose che scrissi per il mio libro sugli Western Italiani, Mondadori, ora fuori commercio, che uscì assieme alla celebre rassegna western della Venezia di Muller.
Intanto, sia chiaro a tutti, che "Il buono, il brutto, il cattivo" è un capolavoro. Ora si può dire. Ai tempi di Tullio Kezich e dei critici barbogi no. E’ anche il terzo western di Sergio Leone. E l’ultimo che gira con Clint Eastwood. E chiude quella che Leone chiamava Trilogia del Dollaro. Anche se ho sempre pensato che quest’idea della Trilogia era del tutto casuale, che non fosse stata cioè affatto progettata. E Leone c’era arrivato a film già fatti. Ma forse è un’idea solo mia.
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Ovviamente grande successo in tutto il mondo e comunque l’ultimo western leoniano di un certo tipo. Dopo arriverà “C’era una volta il West” che avrebbe dovuto chiudere tutto per sempre. Per il primissimo cast Leone parla a Dario Argento, giornalista del “Paese Sera”, di Clint Eastwood, Gian Maria Volontè e di Enrico Maria Salerno, escludendo quindi Lee Van Cleef e Eli Wallach.
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Nella stessa intervista ricorda che farà ancora altri due western, una storia di Calamity Jane e Wild Bill Hickock interpretata da Sofia Loren e Steve McQueen e una nuova versione di Viva Villa, il vecchio film americano di Jack Conway che tanto era piaciuto al pubblico italiano.
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Di certo per vedere una donna forte nel cinema di Leone dovremo aspettare il successivo C’era una volta il West. Ma qualcosa delle sbruffonate di Tuco, ricordano un po’ quelle del Villa di Wallace Beery. Proprio sulla scelta del grande Eli Wallach nel ruolo di Tuco, il brutto, una delle carte vincenti del film, dirà a Oreste De Fornari nella sua biografia: “Eli Wallach l’ho preso per un gesto che fa nella Conquista del West, quando scende dal treno e parla con Peppard.
Vede il bambino, figlio di Peppard, si volta di scatto e gli spara con le dita facendogli una pernacchia. Da quello ho capito che era un attore comico di estrazione chapliniana, un ebreo napoletano: si poteva fare tutto con lui. Infatti ci siamo molto divertiti a stare insieme.” Eli Wallach, in realtà, aveva fatto già il bandito messicano con John Sturges in I magnifici sette. Era Calvera.
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Cattivo, ma anche comico, e già doppiato da Carletto Romano. Leone non poteva non saperlo. Come non poteva non conoscere la sua filmografia noir, almeno il magnifico The Line Up di Don Siegel. O il suo saper fare perfettamente, prima di Robert De Niro e di Joe Pesci, l’italo-americano di Brooklyn. Nel film di Leone, curiosamente, Eli Wallach, ebreo, si fa un sacco di volte il segno della croce come fanno gli italo-americani.
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La prima volta che lo chiamano per un provino con Leone risponde. “Un western italiano, non ne avevo mai sentito parlare, suona come una pizza hawaiana. Beh, allora incontro Sergio, che non parlava inglese. Disse in francese: Ti vorrei nel mio film. Pesava 290 libbre e disse: Ti farò vedere qualcosa. Vuoi vedere un piccolo pezzo del mio film?”. Leone gli manda così due pagine di sceneggiatura. Wallach accetta e va a scegliere gli abiti al negozio Western Costume di Los Angeles insieme a Henry Hathaway.
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Li porta sul set e Sergio Leone rimane incantato. Più tardi, Leone dirà: “Tuco rappresenta, come più tardi Cheyenne, tutte le contraddizioni dell’America, e in parte anche le mie. Avrebbe voluto interpretarlo Volonté, ma non mi sembrava una scelta giusta. Sarebbe diventato un personaggio nevrotico, e io invece avevo bisogno di un attore dal naturale talento comico. Così scelsi Eli Wallach, di solito impiegato in parti drammatiche. Wallach aveva in sé qualcosa di chapliniano, qualcosa che evidentemente molti non hanno mai capito. E per Tuco fu perfetto”.
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Per la seconda volta torna nel cinema leoniano Lee Van Cleef. Anche se in un primo tempo Leone cerca Charles Bronson, che però deve girare con Robert Aldrich Quella sporca dozzina. Lee Van Cleef ottiene quindi il ruolo di Sentenza, il cattivo, anche se nella sceneggiatura si chiamava Banjo e nella versione inglese diventerà Angel Eyes. Lee Van Cleef ricordava: “Sul primo film non potevo trattare, visto che non riuscivo nemmeno a pagare il conto del telefono.
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Feci il film, pagai il conto del telefono e esattamente un anno dopo, il 12 aprile del 1966, fui chiamato di nuovo per fare Il buono, il brutto, il cattivo. E insieme a questo, feci anche La resa dei conti. Ma ora, invece di fare seventeen thousand dollars, ne stavo facendo a hundred e qualcosa- merito di Leone, non mio. Da allora in poi feci il protagonista e il cattivo in Italia”. Per lui non era un problema girare due film contemporaneamente (“non lo è per qualcuno che si ritiene un attore...”), anche se i personaggi sono un po’ diversi.
Sentenza è un vero son-of-a-bitch, “cattivo perché sorride mentre compie azioni orrende”. Il rapporto con Leone stavolta è davvero amichevole. Lo va a trovare anche mentre monta il film. “Il montaggio è davvero dove Leone è al top. I suoi tempi sono grandi, anche i nostri registi seguono il montaggio, ma non lo fanno manualmente. Lui invece se lo fa da solo”.
Per la terza e ultima volta torna Clint Eastwood. “Sergio odiava Clint Eastwood, credo perché aveva chiesto troppo per l’ultimo film; ognuno dei due si attribuiva il merito del successo dell’altro.”, ha detto lo sceneggiatore Sergio Donati. Clint si metterà il poncho dei primi due film solo per il duello finale. Sembra che Eastwood avesse in realtà chiesto 250.000 dollari e il dieci per cento degli incassi. Ma soprattutto Eastwood non era affatto contento del suo ruolo, che era visibilmente meno forte di quello di Tuco. Inizia anche a serpeggiare una evidente competizione con lo stesso Leone su chi avesse inventato il genere e su chi fosse indispensabile all’altro. Conflitto che porterà alla rottura definitiva dopo la fine del film.
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Sul set Leone parla qualcosa di più di inglese e le cose funzionano meglio con gli attori americani.
Grimaldi, il produttore, finì per comprare a scatola chiusa un copione che non era ancora stato scritto. Ma era comunque il terzo western di Leone.
Il titolo e la storia erano di Luciano Vincenzoni, che riprendeva parte dell’idea chiave che aveva già ispirato La grande guerra e parte di un raccontino di Guy de Maupassant, “Deux Amis”, che era ambientato tra Francia e Germania nel 1871. In pratica era La grande guerra ambientato durante la Guerra Civile americana.
Per questo Leone chiama anche Age e Scarpelli, che erano gli sceneggiatori del film di Mario Monicelli assieme a Vincenzoni. Anche il titolo è di Vincenzoni. Leone lavora al copione con Age e Scarpelli, ma con lui i due esperti sceneggiatori non funzionano molto. Così ci lavora da solo per due revisioni, poi durante la lavorazione e poi finisce a rivedere tutto con Sergio Donati.
“Per Il buono, il brutto, il cattivo Leone voleva i migliori sceneggiatori disponibili sul mercato”, ha dichiarato Donati, “così chiamò Age e Scarpelli, e fu un errore. Scrissero una specie di commedia ambientata nel West, non un western; nel film credo sia rimasta appena una battuta scritta da loro”. Ovviamente questo è da verificare, anche se Furio Scarpelli ha descritto come “fatale” il loro incontro con Leone. Contemporaneamente si raffreddano anche i rapporti di Leone con Vincenzoni, che se ne va dalla scrittura del film e lavora a due western di registi diversi, Il mercenario di Sergio Corbucci e Da uomo a uomo di Giulio Petroni.
Sul set arriva anche, fresco di tre film come aiuto di Marco Ferreri, un giovanissimo Giancarlo Santi. “Sergio voleva conoscermi e aveva i pezzi della pellicola di Per qualche dollaro in più quando l’ho incontrato. Abbiamo simpatizzato subito, mi ha chiamato per il progetto e scaraventato in Spagna dal marzo all’agosto ’66, il periodo più bello della mia vita. Il buono, il brutto, il cattivo si lasciò alle spalle le storie limitate dei primi due western, aveva maggior respiro epico, etico e storico. Imparai anche come si gestisce un budget, perché Leone era un grande imprenditore” (Santi, intervistato al Festival di Torella dei Lombardi nel 2006)
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. E’ grazie a Santi, barbuto, e già aiuto di Marco Ferreri, che Leone si fa crescere la barba. Lo vede la prima volta e gli dice: “A Foschia [il soprannome di Santi], sotto la barba si può nasconne un genio come ’no stronzo.” E Santi risponde: “Allora nun te la fa’ cresce, così l’equivoco nun se crea!” E così divennero amici, Leone si fece crescere la barba, e “sotto c’era un genio”. Santi prepara le scene da girare in Spagna e tutta la parte sulla Guerra Civile.
Dice che scelse gli hippy che stavano in Spagna, “tutte facce da primo piano. Su Se sei vivo spara hanno fatto i protagonisti”. Grazie a Santi, che dirigeva la seconda unità, e a Sergio Salvati, operatore alla mcchina, si è capito qualcosa riguardo al disastro della scena del ponte che salta in aria. In pratica Leone voleva fare un piacere all’esercitò spagnolo di Franco che si era prestato a dare le tante comparse per i sudistie i nordisti delle scene di massa. E ebbe l’idea di far esplodere il ponte, sul serio, di fronte alle cineprese a un ufficiale spagnolo.
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Solo che si sbagliò e il ponte saltò prima che le cineprese girassero la scena. Un disastro produttivo e economico. Anche se poi lo stesso esercito si adoperà per rimettere un po’ in piedi il ponte e farlo saltare di nuovo.
Il film è ambienato durante la Guerra Civile. Tuco è un messicano che si mette d’accordo con il Biondo per intascare le taglie e poi scappare. Sentenza, invece, un pistolero a pagamento, cerca l’oro dei Confederati e va dietro al nome di un soldato, Bill Carson. Tuco e il Biondo trovano Bill Carson morente e sentono la storia dell’oro. Devono andare al cimitero militare di Sad Hill, alla ricerca di una tomba sconosciuta, accanto a quella di Arch Stanton. Si vestono da sudisti e vanno a visitare la missione del fratello di Tuco, padre Pablo Ramirez.
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I due vengono presi dai Nordisti, che li scambiano per Sudisti e finiscono nella prigione militare di Betterville, dove Sentenza è diventato sergente. Lì Sentenza prima tortura Tuco e poi lo fa evadere. I tre si incontrona, si tradiscono, fino a quando arriveranno a Sad Hill. Il Biondo uccide Sentenza e se ne va con l’oro mentre Tuco è lasciato con una corda al collo e senza cavallo. “Alla fine”, spiegava Leone, “tutto si gioca fra Tuco e il Biondo.
Ma concludere così il film non mi soddisfaceva. Allora appena prima della sequenza dell’arena ho inventato la scena nella quale Clint trova il poncho vicino al corpo di un giovane sudisata gonizzante, lo stesso poncho che lui indossava nei film precedenti. Alla fine, liberato Tuco, lui si allontana con quel poncho e va verso le avventure precedenti, va verso il Sud per vivere la storia di Per un pugno di dollari.
E il ciclo, come la trilogia, ricomincia”. In realtà in film non viene affatto percepito in questo modo e questa sembra più una riflessione molto a posteriori acchiappa-critici inventata da Leone. Visto poi all’interno del rapporto Eastwood-Leone sembra invece l’addio della star americana al regista italiano.
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Il budget è molto ricco, un milione e trecentomila dollari, metà dei quali vengono dalla United Artists. La lavorazione si svolge tra maggio e luglio 1966. Il set di Tabernas è usato per Valverde, Santa Ana per Santa Fe, Colmenar Viejo per Peralta. La stazione è a La Calahorra, vicino a Guadix, mentre il convento francescano è a Cortijo de los Frailes, a pochi chilometri da Los Albicoques. La battaglia si svolge a nord di Madrid, accanto al fiume Arlanza, fuori Burgos. Lì c’è anche il cimitero, ancora luogo di culto per i fan del film.
Per la prima volta Leone lavora con Tonino Delli Colli, grande direttore della fotografia legato però al cinema realistico e alla commedia, diciamo dal Pasolini di Accattone ai tanti film con Dino Risi. In realtà Tonino avrebbe dovuto lavorare da subito con Leone, del quale era molto amico, ma i produttori della Jolly Film, Papi e Colombo, gli imposero Massimo Dallamano per il primo film, “Per un pugno di dollari”, uomo di loro fiducia. E Dallamano, grande esperto di colore, funzionò benissimo, specialmente per glie sterni sotto al sole.
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Al punto che girerà anche “Per qualche dollaro in più”, prodotto da Alberto Grimaldi e non più da Papie Colombo. Ma volle passare alla regia. E così si liberò il posto per Tonino. O, forse, Tonino, era sempre stata la prima scelta per Leone. Comuqnue fosse andata, Delli Colli farà un grandissimo lavoro sul film.
“C’è stato un punto di partenza, un prinicipio estetico: in un western non si possono mettere tanti colori.”, ha detto Delli Colli. “Abbiamo tenuto le tinte smorzate: nero, marrone, bianco corda, dato che le costruzioni erano in legno e che i colori del paesaggio erano piuttosto vivi.” In un trionfo di cultura, Eli Wallach ricorda che Leone si ispirava, per la luce, volutamente a Vermeer e Rembrandt. Possibile...? Non ci sarà lo zampino di Carlo Simi in tutto questo sfoggio di cultura?
Quello che veramente cresce durante la lavorazione è il ruolo di Eli Wallach. La scena che l’attore preferisce è quella dove viene impiccato per la terza volta. “Stavo seduto su questo cavallo, le mie mani legate dietro la schiena, e pensavo: Che cosa sto facendo nel sud della Spagna seduto su un cavallo? Io potrei essere da qualche parte del mondo a interpretare Cecov”.
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A quel punto una piccola signora lo guarda, lui la riguarda, digrigna i denti e gli esce un Grrr... molto comico, molto umano. Certo su Eli Wallach Leone fa un gran lavoro, anche perché è l’unico personaggio davvero nuovo e l’unico vero attore del gruppo. Notevolissimo anche Aldo Giuffrè, che si vede raramente negli spaghetti western. In questo caso è doppiato da Pino Locchi.
Fa un piccolo ruolo, ma interessante, la cubana Chelo Alonso, allora già moglie del produttore Aldo Pomilia, che così ricorda il suo ruolo. “Io non dovevo interpretare nessun ruolo. Ero andata in Spagna con mio marito, che era il direttore generale del film. Avevo portato mio figlio. Eravamo molto amici di Leone, della moglie, delle figlie. Avevamo preso due ville vicine che davano sul mare. Sergio mi chiedeva in continuazione di fargli una particina, una piccola cosa, che avrebbe scritto apposta per me.
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Anche se eravamo molto amici, io non lo volevo fare. Poi, il giorno che devono girare la scena dove ero prevista io, mi dicono che l’attrice che avevano chiamato al mio posto non poteva più venire. Era rimasta a Madrid. Ho ancora il dubbio che non l’avessero chiamata per niente. E così feci questo piccolo ruolo, gratis. La cosa divertente è che, poco tempo fa, mi hanno chiamata quelli della Imaie, la società che tratta i diritti sui film passati in tv per gli attori. Mi dicono di avere dei soldi da darmi. Era parecchio che mi stavano cercando. Alla fine scopro che dovevano darmi 10.000 euro e che ogni volta che passa il film, io prendo 500 euro. E pensare che non lo volevo neanche fare.”
Sergio Donati lavorò otto mesi al montaggio e al missaggio del film. Un lavoro che sembrava interminabile e che finì solo il 23 dicembre a un soffio dall’uscita prevista. Un massacro, ricordano tutti, visto che Leone non era mai contento. Nino Baragli, il montatore, lo chiamava “spappolation” (“ti ammazza al montaggio…”). Tagliarono una ventina di minuti dal montatone finale per prolemi di durata. Via anche una scena di sesso fra Eastwood e una messicana, come capitò spesso nei film di Leone.
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I critici italiani, questa volta, esaltano il film. Parlano le firme maggiori. “Ironia, invenzione, senso dello spettacolo rendono memorabile questo film, situando il suo autore tra gli uomini di cinema più interessanti dell’ultima leva” scrive Pietro Bianchi su “Il Giorno”. E Enzo Biagi, sull’”Europeo”: “Per fare centro tre volte, come è appunto il caso di Sergio Leone, bisogna essere dotati di vero talento.
Non si imbroglia la grande platea, è più facile ingannare certi giovanottoni della critica, che abbondano in citazioni e scarseggiano in idee.” Alberto Moravia lo accusa invece di bovarismo piccolo borghese, ma è una critica a tutto il genere, non solo al film di Leone: “Il film western italiano è nato non già da un ricordo ancestrale bensì dal bovarismo piccolo-borghese dei registi che da ragazzi si erano appassionati per il western americano. In altri termini il western di Hollywood nasce da un mito; quello italiano dal mito del mito. Il mito del mito: siamo già nel pastiche, nella maniera” (“L’Espresso”).
Il film, uscito a Natale 1966 arrivò terzo negli incassi italiani dopo due kolossal come La Bibbia di John Huston e Il dottor Zivago di David Lean. Qualcosa deve avergli nuociuto anche il divieto ai 14 anni, con il film che usciva, attesissimo, in pieno Natale. Venne poi derubricato qualche tempo dopo con il taglio di qualche scena, ad esempio il pestaggio di Tuco ad opera del perfido Mario Brega (grande scena) e qualche ferito un po’ troppo truculento. Ma sembrano quasi tagli di puro alleggerimento.
Lo stesso Donati poi perde due mesi in America per il doppiaggio in inglese, con Leone ormai apertamente in guerra con Clint Eastwood. In America esce nel gennaio 1968, cioè oltre un anno dopo l’uscita europea. Responsabile del bellissimo doppiaggio americano è Mickey Knox, vecchio amico di Eli Wallach, un attore che ebbe seri problemi con il Maccartismo, e che in Italia farà spesso questi adattamenti, oltre che qualche ruolo.
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Racconta che il lavoro fu difficilissimo, un po’ per la povertà della traduzione dall’italiano, un po’ per i frequenti cambiamenti di battute degli attori, un po’ per la solita Babele di lingue dei film western italiani. Per fare quello che, normalmente, si poteva fare dai sette ai dieci giorni, Knox ci perderà sei settimane, che è più o meno quello che ricorda Donati. Di certo, però, come spiega Knox, “questo non era un film normale”.
Luciano Vincenzoni ha detto più volte di aver scritto un sequel: “Il buono, il brutto, il cattivo n.2”. Ambientato vent’anni dopo la fine del primo. Lo ha confermato anche Eli Wallach: “Tuco sta ancora cercando quel figlio di puttana. E scopre che il Biondo è stato ucciso. Ma il suo nipote è ancora vivo, e sa dove è nascosto il tesoro. Così Tuco decide di inseguirlo”.
Clint Eastwood si era dichiarato pronto a dare la voce narrante e persino a produrlo. La regia prevista era di Joe Dante e Leone era solo co-produttore. Ma non ha mai accettato di farlo, né di farlo fare a qualcun altro concedendo l’uso del titolo e dei personaggi. Del resto, un film e dei personaggi così amati era difficile toccarli e farli toccare da altri.
Il film ha, ovviamnete, fan in tutto il mondo, e il titolo fu imitato e citato centinaia di volte. Bobby Kennedy lo usò in campagna elettorale. Ma venne usato anche molto nella musica. Pensiamo solo al gruppo inglese nato nel 2000 che si presenta come The Good, The Bad, The Queen. Tra le tante variazioni musicali del tempo ricordiamo quella, magnfica, dei Pogues per il film di Alex Cox Straight to Hell. Ma non scherzava nemmeno quello di Bruce Springsteen. Il duello triangolare finale, il triello, come lo chiamava Leone, per Tarantino è la migliore scena d’azione di tutti i tempi.