Pierluigi Panza per “www.corriere.it”
don giovanni del festival di salisburgo 4
Donna Elvira è incinta e dà alla luce un bambino. Perseguita per questo motivo Don Giovanni seguita da un esercito di 150 donne di Salisburgo che hanno dato la disponibilità a essere in scena in questo “Don Giovanni” del centenario del Festival fondato da con Karajan nella città di Mozart. Come Erinni in sottoveste e lingerie, o in un burka nero che lascia loro agitare i capelli in un sabba infernale, sono la cattiva coscienza del “burlador di Siviglia”.
Don Ottavio (buona prova di Michael Spyres) è il difensore dei valori della chiesa dissacrata da Don Giovanni e quindi ora sventola la bandiera di San Giorgio (usata dai crociati), ora è uno sciatore anni Venti con la bandiera dell’Europa cristiana sulla tuta (si vede solo con il binocolo ad altissima risoluzione) e ora porta a spasso due barboncini bianchi, uno mignon come Dudù e uno big-size rasati come da un Jean-Louis David.
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Nonostante l’ottima direzione di Currentzis e la sua musicAeterna Orchestra, la regia troppo pretenziosa e intelligente di Romeo Castellucci mette in scena così tante idee e trovate che si sovrappongono da riuscire nel paradosso di non emozionare. Una automobile precipita dall’alto improvvisamente e non si vedrà mai più (c’entra lo sponsor?), una carpetta attraversa veloce la chiesa sconsacrata, il catalogo sono due fotocopiatrici: ma perché, allora, non stampare le immagini delle 150 donne salisburghesi conquistate anziché usare Leporello come un tecnico Xerox che fa la dimostrazione di come funziona un elettrodomestico?
Don Giovanni e Leporello sono uno il doppio dell’altro, identici, persi nella fascinosa e rarefatta atmosfera bianco abbacinante del grande palco del Grosses Festspielhaus dove si consuma la tragedia dell’uomo perseguitato dal suo demone e dove tutto ciò che è quel Settecento anche popolare dell’opera scompare: non ci sono spade, non c’è il fagiano, non il vino marzimino e neppure la statua del Commendatore… Se qualche spettatore fosse al suo primo “Don Giovanni” avrebbe visto un’altra opera; se altri erano in galleria a cinquanta metri dal palco non hanno mai distinto Don Giovanni e Leporello e hanno perso una infinità di particolari, che ho poi scoperto riguardando l’opera in tv su Orf (le opere sono ormai pensate per la tv?).
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Ma al netto di tutto questo, dato per avvincente l’ultimo atto spoglio, dove un Don Giovanni nudo - del quale vediamo l’arnese sempre pronto - si dimena come un ossesso, con Leporello che sta fuori dal perimetro della scena e della tragedia, al netto di questa scelta drammaturgica la messa in scena, poi, non deve deragliare. Per uno (Castellucci) che ha fondato Socìetas Raffaello Sanzio appendere una croce alla Cimabue o il “Ritratto di fanciulla” del fiammingo Petrus Christus al contrario in una chiesa dalle paraste rinascimentali e gli archi a tutto sesto diventa una confusione scenografica.
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E poi ci sono i palloni da basket, la spazzatura lanciata alla fine del secondo atto sino alla chiusura con la riproduzione dei cadaveri carbonizzati ritrovati a Pompei. Manca ancora qualcosa in scena? Eh, sì, i cantanti, che in tutto questo enorme apparato drammaturgico, caratteristico nell’opera lirica contemporanea, appaiono un accessorio di ottima recitazione. Infatti lo sono, e appaiono tutti bravi e impostati come da scuola (un po’ meno gli italiani), ma nessuno con quel talento che sconvolge l’animo degli spettatori e li fa piangere.
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