QUEL CHE LA CINA PUO' FARE AL MONDO SI VEDE IN TIBET - PECHINO CELEBRA I 70 ANNI DELLA “LIBERAZIONE PACIFICA DEL TIBET”, CIOE' PATTO DEL 1951 CON CUI I RAPPRESENTANTI DEL PAESE FURONO COSTRETTI A RICONOSCERE LA SOVRANITÀ CINESE - DA ALLORA IL DALAI LAMA E' IN ESILIO A DHARAMSALA E IL CONTROLLO DEL REGIME E' ENTRATO PERSINO NEI MONASTERI BUDDISTI – INCREDIBILE: PECHINO HA EMANATO UNA LEGGE CHE OBBLIGA IL DALAI LAMA A REINCARNARSI ALL'INTERNO TERRITORIO DELLA REPUBBLICA POPOLARE...
Cecilia Attanasio Ghezzi per “la Stampa”
«Il Tibet può svilupparsi e prosperare solo sotto la guida del Partito e del socialismo». Così, con una cerimonia in grande stile di fronte a ventimila partecipanti e trasmessa su tutto il territorio nazionale dalla tv di Stato, Pechino ha celebrato i 70 anni della «liberazione pacifica del Tibet», il «patto» del 1951 con cui i rappresentanti tibetani furono costretti a riconoscere la sovranità cinese che fu considerato illegittimo e ripudiato dal Dalai Lama nel 1959 quando, appena ventiquattrenne, scappò in India per formare un nuovo governo provvisorio.
Da una gigantesca tribuna rossa dominata dai ritratti dei leader comunisti e da una gigantografia di Xi Jinping e posizionata proprio di fronte al Potala, palazzo iconico del buddhismo tibetano a Lhasa, i dirigenti cinesi hanno snocciolato le cifre del loro successo. Il Pil della regione nel 1951 era di appena 17 milioni di euro mentre oggi ha superato i 25 miliardi, l'aspettativa media di vita è passata dai 35 ai 71 anni, la povertà assoluta è stata definitivamente eradicata e tutta la popolazione è stata scolarizzata.
E come se non bastasse ferrovie, autostrade e 140 collegamenti aerei hanno reso accessibile il tetto del mondo a 160 milioni di turisti solo negli ultimi cinque anni. Di fatto il turismo di massa ha trasformato i luoghi sacri in attrazioni per i visitatori e intere regioni, un tempo inaccessibili, in comodi hub provvisti di aeroporto e snodi autostradali. La narrazione dei dominatori è quella di un «progresso miracoloso» che non sarebbe stato possibile senza la tenacia con cui la Repubblica popolare ha saputo tenere a bada «la cricca del Dalai Lama» e le «influenze straniere».
«Nessuno ha il diritto di puntare il dito contro la Cina sui temi legati al Tibet», è la versione delle autorità cinesi, che non si stancano di ripetere che il leader del buddhismo tibetano «non è solo una figura religiosa, ma un esiliato politico impegnato in attività separatiste» e che per questo Pechino «si oppone con fermezza ad ogni contatto tra funzionari stranieri e Dalai Lama». Ma nonostante sia vero che fin dal 1642 il ruolo della massima autorità tibetana è stato insieme politico e spirituale, nel 2011 Tenzin Gyatso ha abdicato al suo ruolo temporale proprio nella speranza, poi dimostratasi vana, di tranquillizzare la Cina.
Mentre il suo governo, mai riconosciuto dalla Cina, è rimasto in esilio a Dharamsala a studiare le scritture e a meditare, il popolo tibetano è stato costretto a una sinizzazione forzata con tanto di campi di rieducazione politica e graduale sostituzione della lingua cinese a quella tibetana. A niente sono valsi gli oltre 150 monaci che si sono dati fuoco per protesta. Il controllo cinese si è espanso persino all'interno dei monasteri, mentre in molte case private il ritratto di Xi Jinping ha sostituito quello dell'ormai 86enne Dalai Lama.
Così mentre Pechino si vanta da sempre di aver liberato il Tibet da una teocrazia di stampo feudale, il 14esimo Dalai Lama ha provato a difendere la sua autonomia nei consessi internazionali per decenni senza ottenere altro risultato che il premio Nobel per la pace nel 1989. Nel 1995 il Panchen Lama, seconda carica del buddismo tibetano e figura chiave per riconoscere la reincarnazione della guida spirituale suprema, è stato rapito e sostituito da un bambino che da allora vive nella capitale cinese.
Inoltre il peso economico sempre maggiore della Repubblica popolare ha reso sempre più difficile l'incontro dell'attuale Dalai Lama con i capi di stato di altre nazioni. Così a Tenzin Gyatso non è rimasto altro che ipotizzare che anche il ruolo spirituale del Dalai Lama possa esaurirsi con la sua morte.
Cosa succederà ce lo farà sapere quando compirà 90 anni ma nel frattempo Pechino, per non farsi trovare impreparata, ha emanato una legge che obbliga il leader spirituale del buddhismo tibetano a reincarnarsi all'interno territorio della Repubblica popolare. Cosa questo possa significare lo scopriremo solo sua alla morte. O alla sua reincarnazione.